Il contratto di lavoro a tempo determinato
La causale come elemento non più essenziale del contratto a termine: la rivoluzione del ''Jobs Act''
Ancora una volta le norme che regolano il rapporto di lavoro a tempo determinato sono argomento di attenzione e di modifica da parte del legislatore del 2014, il quale si pone come scopo quello di completare il processo di liberalizzazione qualitativa del contratto a termine, svincolandolo definitivamente dal rispetto di causali giustificative di carattere oggettivo, originariamente introdotte dal d.lgs. n. 368/2001 in attuazione della direttiva europea 1999/70.
Il decreto legge n. 34 del 2014, c.d. decreto Poletti, dall'allora Ministro del lavoro Giuliano Poletti del governo Renzi, introduce una novità assoluta all'interno della normativa del contratto a tempo determinato, dal momento che la sua stipulazione non è più soggetta alla presenza delle ragioni tecniche, organizzative, produttive e sostitutive di cui all'art. 1 d.lgs. 368/2001.
L'art. 1 del d.l. 34/2014, convertito in l. 16 maggio 2014, n. 78, rende il contratto a tempo determinano libero da qualsivoglia causale giustificativa, abroga il comma 1 bis, introdotto dalla l. 28 giugno 2012, n. 92 e riscrive quasi integralmente il primo comma, consentendo «l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe, concluso fra un datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell'ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato».
La rivoluzione del "Jobs Act" è però consacrata nell'art. 23 del d. lgs. 81/2015, e nell'art. 19 del suddetto decreto, i quali dispongono l' "equivalente funzionale" delle ragioni tecniche, sancendo rispettivamente la clausola di contingentamento, e la durata massima del contratto.
Più in dettaglio, la previsione della percentuale di contingentamento, peraltro non nuova nel nostro ordinamento, consente che la stipulazione di contratti a tempo determinato non può eccedere il limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato, rimanendone esclusa da tale limitazione le imprese che occupino fino a cinque dipendenti; mentre la durata massima del contatto a termine è di 36 mesi.
È la prima volta che la legge individua una durata massima del primo contratto, rimanendo invece confermati l'obbligo di specificazione del termine in forma scritta e il periodo massimo di 36 mesi, comprensivo di proroga e rinnovi, superato il quale non è possibile assumere a termine lo stesso lavoratore per lo svolgimento di mansioni equivalenti, e il contratto si considera a tempo indeterminato.
Il rispetto della percentuale in combinato con la durata massima del contratto è sufficiente, dunque, a rendere "legittimo" il rapporto a tempo determinato tra datore di lavoro e lavoratore, a discapito delle precedenti normative che sin 2001 cercarono di imporre il binomio contratto a termine-causale giustificative. Venendo meno le causali giustificative l'apposizione del termine rimane vincolata al solo rispetto dei vincoli numerici, si è passati quindi«dall'acausalità come eccezione all'acausalità come regola». In tale sistema cessa anche l'onere del datore di lavoro di provare l'esistenza delle causali giustificatrici, in inerenza allo scopo del legislatore di prevedere una riduzione delle controversie in materia di lavoro.
Nell'ottica di quanto disposto, non mancano alcuni pensieri da parte della dottrina, di ritenere che possa esserci una "fungibilità" tra il contratto a tempo determinato e il contratto a tempo indeterminato. Il rapporto di lavoro a termine verrebbe così parificato, nei suoi presupposti, ai rapporti di lavoro sine die, perché il datore non deve sostanzialmente mai evidenziare la ragione economica o produttiva che lo porta ad apporre il termine al contratto. Il quale, dunque, viene privato, ex lege, di una delle ragioni che ne costituiscono la "causa": cioè la giustificabilità dell'inserimento di un elemento accessorio, il termine.
Privando, così, il lavoratore della possibilità di comprendere la ratio della stipulazione del contratto a termine e, dunque, della piena consapevolezza del passo che compie.
La previsione operata dal legislatore italiano è però da leggere nell'ottica delle disposizioni europee, di fatti la legge n. 78/2014 non modifica quanto disposto dal comma 01, art. 1, del d.lgs. 368/2001, che qualifica come "forma comune» il contratto a tempo indeterminato, non rendendolo fungibile con il rapporto di lavoro a termine, che deve invece soddisfare esigenze temporanee e provvisorie e non dunque permanenti e durevoli. [...]
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Il contratto di lavoro a tempo determinato
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Informazioni tesi
Autore: | Floriana Dolce |
Tipo: | Laurea magistrale a ciclo unico |
Anno: | 2018-19 |
Università: | Università degli Studi di Catanzaro Magna Grecia |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Giurisprudenza |
Relatore: | Umberto Gargiulo |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 106 |
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