Nunzio Rossi
Vita e opere di Nunzio Rossi
La personalità artistica del pittore napoletano Nunzio Rossi comincia a delinearsi più compiutamente soltanto negli ultimi decenni del Novecento, grazie ai contributi offerti dalla critica moderna e per mezzo di una più attenta valutazione delle fonti storiografiche.
La data di nascita è ancora oggi sconosciuta, ma è stata collocata intorno al 1626 sulla base dei diciotto anni che lo storiografo Domenico Antonio Masini, suo contemporaneo, attribuisce al pittore al momento dell’esecuzione della Natività di Cristo dipinta per la chiesa di San Girolamo, nella Certosa di Bologna, firmata per esteso “Nutio Rossi” e datata “1644”. Ma a ben considerare questa prima notizia, il debutto dell’artista in un ambiente competitivo come quello di Bologna sembrerebbe essere assai prematuro e dunque poco verosimile se si tiene conto della precoce età in cui sarebbe avvenuto e che questa antica fonte gli assegna; d’altra parte è anche vero che non possediamo altri riferimenti intorno alla sua iniziale attività, e le opere a lui attribuite e conservate a Napoli, sua città natale, sono state inserite in un arco cronologico che va dal 1645 al 1647, vale a dire due anni dopo il rientro da Bologna.
Si tratta di un corpus stilisticamente poco omogeneo al quale forse andrebbe dato un diverso sviluppo cronologico. Ciò è possibile soltanto se si considera il riferimento del Masini quale lapsus (18 o 28 anni?), e si anticipa quindi la data di nascita del pittore di quel tanto che ci consenta di ricostruire un percorso più convincente. Ad ogni modo da questa prima testimonianza bolognese veniamo per la prima volta a conoscenza della provenienza napoletana del pittore, che sarà confermata dagli scrittori successivi e così acquisita dagli studi più recenti, quelli della Novelli Radice, la quale nell’intento di dimostrare come il cognome del nostro pittore sia particolarmente diffuso nell’onomastica locale e in strettissima relazione con l’ambiente artistico partenopeo, ha richiamato l’attenzione su due notizie di estremo interesse: la prima, pubblicata dal Salazar nel 1895, tratta dai registri dell’attuale parrocchia di San Liborio, secondo la quale il figlio di un certo Ambrosio Russo, Giacomo, è tenuto a battesimo nel 1632 dal noto pittore Paolo Finoglio; la seconda a proposito di un contratto di compravendita pubblicato dal Prota Giurleo, stipulato nel 1632 dalla madre di Salvator Rosa, tra i cui testimoni compare un Francesco Antonio Russo “da Napoli pittore”, notizia dalla quale la studiosa ha ricavato anche l’ipotesi che al nucleo familiare di questo sconosciuto personaggio dovesse appartenere il nostro artista.
Da queste prime notizie siamo dunque nelle condizioni di porre gli inizi del percorso del Rossi nella Napoli vicereale della prima metà del XVII secolo, più precisamente nell’ambito di quel fervore artistico che aveva interessato le arti figurative negli anni Trenta-Quaranta del Seicento. Sul versante della pittura assistiamo in questo momento ad un sensibile ridimensionamento di quelle tendenze che avevano agito all’interno della tradizione naturalistica caravaggesca, mediante l’immissione di motivi desunti dagli esempi di Rubens e van Dyck, ivi comprese le correnti neo-venete. Tali innesti non produssero però un rinnovamento radicale di strutture e mezzi linguistici, ma diedero luogo ad un adeguamento degli iniziali portati caravaggeschi alle esigenze proprie della situazione locale e ai fermenti spirituali che la animavano. Nello stesso periodo si assiste inoltre ad una considerevole e qualificata irruzione delle tendenze della moderna pittura romano-bolognese ad opera di artisti emiliani come Domenichino e Giovanni Lanfranco, chiamati a Napoli per l’esecuzione delle grandi imprese decorative ad affresco che si rendevano necessarie via via che giungevano a compimento le ingenti imprese architettoniche come la chiesa del Gesù Nuovo (1585-1633), la cappella del Tesoro di San Gennaro in Duomo (1608-1636) e i riassetti delle chiese dei Santi Apostoli (1609-1640) e della Certosa di San Martino (1623- 1656). Di queste moderne tendenze dovettero tener conto alcuni dei principali artisti locali di questo periodo: il cavalier Massimo Stanzione, noto come “il Guido Reni Napoletano”secondo un appellativo che nella biografia del pittore, riportata da Bernardo De Dominici, si attribuisce al mercante fiammingo Gaspare Roomer e nella cui scuola dello Stanzione, a detta dello stesso biografo, potrebbe essersi svolto l’iter formativo di Rossi.
Quest’ultima notizia troverebbe verosimilmente origine nell’esistenza di una tradizione orale tramandata nelle botteghe degli artisti ma diffusa anche presso antiquari e pittori dilettanti, che legava al nome dello Stanzione molti tra i più importanti esponenti della pittura napoletana di questo secolo. Questa tradizione sarebbe confluita negli scritti di alcuni biografi come il messinese Francesco Susinno e il succitato De Dominici. Ciò che veniva colto dagli esempi forniti in loco dagli accreditati maestri emiliani Domenichino e Lanfranco, impegnati rispettivamente nei cicli affrescati della cappella del Tesoro, del Gesù Nuovo e dei Santi Apostoli, era quella ininterrotta tradizione culturale che, iniziata a Roma con il classicismo di Annibale Carracci negli affreschi di palazzo Farnese, con la produzione romana di Guido Reni, sembrava proseguire negli interventi decorativi dello Zampieri e nei grandi cicli affrescati dal suo antagonista parmense. Da tale continuità trasse spunto lo stesso Stanzione allorquando si accinse ad affrescare la volta, oggi distrutta, della basilica napoletana di San Paolo Maggiore (1642), scegliendo per le scene dei santi Pietro e Paolo la soluzione del quadro riportato e le indicazioni di studiato e composto classicismo degli affreschi domenichiniani. Ma ad attirare maggiormente gli artisti locali fu probabilmente il Lanfranco prebarocco dell’attività romana tra il 1615 e il 1618 (in particolare quella degli affreschi del Quirinale), più vicino alle soluzioni dei caravaggeschi riformati come Carlo Saraceni e Orazio Gentileschi: soluzioni che avevano interessato soprattutto il napoletano Battistello e in una certa misura anche Stanzione al tempo del soggiorno romano della metà degli anni Venti. Sorprendente è la capacità di questo artista di coniugare i nuovi elementi della pittura emiliana con la tradizione naturalistica dominante a Napoli, al fine di ricavarvi un valido modello per tutta una generazione di pittori napoletani.
Ad impadronirsi di questa originale sintesi fu probabilmente proprio il nostro Nunzio Rossi, che della pittura romano-bolognese sembra aver colto proprio quegli aspetti innovativi e rivoluzionari che i suoi conterranei avevano sistematicamente ignorato; quelle pennellate guizzanti ed intrise di colore che già ci appaiono come preludio a quella moderna pittura barocca che nel corso della seconda metà del Seicento avrà il suo massimo esponente in Luca Giordano.
Nessuna notizia è pervenuta circa il debutto artistico del pittore: le fonti non ci sono di nessun aiuto, studiosi come la Novelli Radice e il De Vito fanno iniziare il suo percorso con la tela di Bologna. Tracce di un’attività giovanile sembrano comunque riconoscibili nella prima produzione napoletana, dove sembra di poter rilevare una maggiore adesione alla tradizione naturalistica locale. In due di questi lavori si possono intravedere, per quanto concerne l’iconografia, anche labili tracce di condizionamenti stanzioneschi: intendiamo riferirci al Mosè che percuote la rupe (scheda n. A19), conservato in una collezione privata e pubblicato dalla Novelli, dove la figura della donna in primo piano mostra un timido tentativo di richiamarsi ad un prototipo illustre: l’analoga figura visibile nella Strage degli Innocenti dipinta da Massimo Stanzione nel 1632, opera a sua volta influenzata dai ben più noti modelli offerti da pittori del calibro di Guido Reni e Nicolas Poussin. Un ulteriore ripresa di questo schema si può ravvisare ancora in un'altra versione del Mosè, attribuita al Rossi dallo studioso Giuseppe De Vito, e indicata con il titolo Serpente di bronzo (scheda n. A20), nella quale si possono individuare anche puntuali citazioni dalle figure dell’affresco del Giudizio Universale di Michelangelo. Ma se si escludono questi due lavori, anche negli altri dipinti su tela come negli affreschi, non ci sembra di poter ritrovare, se non in misura del tutto marginale, segni certi di una volontà del pittore di accostarsi alle convenzionali soluzioni compositive del suo maestro napoletano. Tale atteggiamento contribuisce a qualificare ulteriormente la pittura del giovane Rossi e a distinguerla da quella di altri allievi del cavaliere, i quali per tutto il corso della loro carriera artistica mostreranno assoluta fedeltà al suo dettato iconografico ripetendo schemi e motivi formali già approntati, senza significative varianti. Ad ogni modo, se nelle scelte iconografiche il Rossi sembra essersi mosso autonomamente rispetto ai modelli stanzioneschi, sul piano cromatico non pare invece essere stato immune alle sollecitazioni di quel naturalismo facente capo ai noti Ribera, Maestro degli Annunci e Fracanzano che cominciano a manifestarsi in maniera più marcata nell’Abramo e gli angeli della chiesa della Trinità dei Pellegrini (scheda n. A14), riferita al Rossi dalla Novelli, dove l’intenzione di verità visibile nella descrizione delle mani e del volto del patriarca sembra prendere il sopravvento. Su questa strada il Rossi sembra proseguire con il dipinto intitolato Davide che suona l’arpa, recentemente acquisito dalla Fondazione e Cassa di Risparmio di Cesena (scheda n. A7), che dall’Abramo dei Pellegrini riprende le angeliche figure dai grandi occhi e le bocche carnose.
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Nunzio Rossi
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Informazioni tesi
Autore: | Luigi Angelone |
Tipo: | Laurea vecchio ordinamento (pre riforma del 1999) |
Anno: | 2005-06 |
Università: | Università degli Studi di Napoli - Federico II |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Lettere moderne |
Relatore: | Rosanna De Gennaro |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 101 |
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