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Competenze e definizione dei profili professionali: quale ruolo per quale evoluzione?

L’economia della conoscenza e il knowledge worker

Come è stato accennato nel capitolo precedente, alla nascita del tema delle human competencies ha fatto seguito una progressiva attenzione nei loro confronti non solo da parte di studiosi e ricercatori, ma anche delle imprese (Chouhan & Srivastava, 2014): da un lato, in quanto ritenute come unica fonte di un vantaggio competitivo sostenibile nel corso del tempo per un’azienda (Grönhaug & Nordhaug, 1992); dall’altro, in qualità di elemento centrale e strategico per il conseguimento di risultati aziendali ottimali (Bentivogli et alii, 2013). Le motivazioni di questo trend che abbraccia la fine del XX secolo sono principalmente due: la prima è data dai quattro filoni di ricerca alla base del costrutto di competenza individuale (psicologia differenziale, scienza del management, comportamentismo, cognitivismo) e dai contributi che ne hanno fatto seguito a partire da White (1959), McClelland (1973, 1976) e soprattutto Boyatzis (1982), proiettando il relativo movimento in una pluralità di aree di studio (tra cui l’educazione, il management e l’organizzazione aziendale) (Chouhan & Srivastava, 2014); la seconda trova le proprie origini in un particolare fenomeno manifestatosi nella seconda parte del ‘900 e che prende il nome di “economia della conoscenza” (o di “knowledge-based economy”) (Sammarra & Profili, 2012).
Dal momento che la prima ragione alla base della tendenza appena menzionata è stata abbondantemente trattata nel corso del capitolo precedente, viene proposto un breve approfondimento sull’oggetto costitutivo della seconda motivazione, al fine di ottenere un quadro di insieme chiaro ed esauriente.
Con l’espressione “knowledge-based economy” si fa comunemente riferimento ad un nuovo scenario dal punto di vista economico-produttivo in sostituzione del precedente paradigma dell’economia di tipo tradizionale (quello industriale) e caratterizzato da una crescita contestuale ed esponenziale del settore dei servizi (De Liso, 2001). Come suggerisce la denominazione stessa, esso ruota intorno all’importanza cruciale della conoscenza (Sammarra & Profili, 2012), vale a dire quel complesso prodotto delle attività cognitive poste in essere dall’individuo che abbracciano l’apprendimento, la comunicazione e le sue percezioni (Epetimehin & Ekundayo, 2011); il suo ruolo risulta così centrale in tale contesto dell’economia, che essa viene concepita a tutti gli effetti come la fonte principale del vantaggio competitivo per l’organizzazione (Tocan, 2012).

Quello della knowledge-based economy costituisce un fenomeno per nulla banale, diffuso su scala globale nei paesi industrializzati (Tocan, 2012). A dimostrazione della complessità che si trova alle sue spalle, sembrano identificabili tre ordini di considerazioni: la prima riguarda la molteplicità di driver o di determinanti che si trovano a fondamento di esso (Scarbrough, 1999, Sammarra & Profili, 2012, Omotayo, 2015); la seconda e la terza, strettamente collegate tra loro, riguardano le implicazioni dell’affermazione di questo nuovo modello di economia in merito al concetto di lavoro (il cosiddetto “knowledge work”) (Kelloway & Barling, 2000) e all’evoluzione della figura del lavoratore, il quale assume i connotati del “knowledge worker” (Scarbrough, 1999, Costas & Kärreman, 2016, Turriago-Hoyos, Thoene & Arjoon, 2016).
Procedendo con ordine, la prima questione che aiuta a inquadrare al meglio l’argomento oggetto del presente paragrafo attiene a quegli aspetti che hanno determinato lo sviluppo e il consolidamento dell’economia della conoscenza. A tal proposito, da una rassegna di una buona parte della letteratura che si focalizza sulla tematica (Scarbrough, 1999, Sammarra & Profili, 2012, Tocan, 2012, Omotayo, 2015) sembrerebbero emergere tre principali elementi o trend a fondamento della knowledge-based economy.
Il primo fa riferimento alla nascita e al progressivo sviluppo nel corso del secolo scorso delle cosiddette “ICT”, vale a dire le “Information and Communication Technologies” (Scarbrough, 1999, Sammarra & Profili, 2012, Tocan, 2012). Si tratta di innovazioni che, in virtù dei loro tratti peculiari di codificare contenuti di varia natura e di favorire la loro trasformazione in informazioni circolanti in tempo reale, hanno contribuito (e, ovviamente, ancora oggi contribuiscono) a rendere la componente di conoscenza che ne è alla base un elemento fondamentale agli occhi delle imprese, nonché assimilabile ad una sorta di commodity (OECD, 1996).

Il secondo driver dell’economia della conoscenza concerne un processo fortemente interrelato e in un certo senso conseguente alla traiettoria di sviluppo percorsa dalle ICT, vale a dire quello della globalizzazione (Sammarra & Profili, 2012, Omotayo, 2015). Con questo termine si intende tipicamente quel fenomeno che abbraccia individui, imprese e, più in senso ampio, sistemi economici e nazioni su scala mondiale, favorendone elevati gradi di integrazione e di interdipendenza (Deese, 2012). Il collegamento tra la globalizzazione e le ICT è spiegato dal fatto che l’integrazione e l’interdipendenza caratteristiche della prima risultano veicolate dall’abbattimento delle barriere spazio-temporali reso possibile proprio dall’avvento delle seconde (Sammarra & Profili, 2012). Se da una parte lo sviluppo delle Information and Communication Technologies supporta la nascita della knowledge-based economy in quanto consente (come detto) di codificare e trasmettere conoscenza e informazioni in tempo reale (OECD, 1996), dall’altra, il contributo apportato dalla globalizzazione a questa causa non risulta molto dissimile: essa, favorendo un crescente scambio di contatti e una connessione ad ampio raggio persino tra Paesi che si trovano a migliaia di chilometri di distanza l’uno dall’altro, sembra offrire le premesse per il passaggio ad un nuovo paradigma economico-produttivo incentrato proprio sul trasferimento della conoscenza a livello internazionale (Omotayo, 2015).
Un terzo e ultimo sviluppo a fondamento della knowledge-based economy sarebbe riscontrabile secondo taluni studiosi (Sammarra & Profili, 2012) nell’ambito di un particolare trend di tipo socio-culturale e nelle implicazioni che da esso sono derivate: quello dei crescenti livelli della qualità e del tenore di vita degli individui. Per mezzo di questa tendenza, che inizia a manifestarsi già a partire dagli anni successivi al secondo Dopoguerra, si assiste infatti ad una sempre più evidente ascesa degli studi nell’ambito dell’alta formazione. Grazie ad essa tra gli individui inizia ad emergere una forte volontà (e al tempo stesso la necessità) di accrescere la propria conoscenza, percepita come requisito-chiave tanto per accedere al mondo del lavoro, quanto per ottenere incarichi occupazionali di prestigio e, conseguentemente, soddisfare un bisogno di auto-realizzazione (Sammarra & Profili, 2012).

Un secondo tema od oggetto di dibattito in letteratura relativamente all’economia della conoscenza è costituito dall’evoluzione del lavoro che ad essa ha fatto seguito (Scarbrough, 1999) e, più precisamente, da quella della sua interpretazione. A tal proposito, l’elemento su cui appare fondamentale porre l’accento è che sono presenti una certa confusione e la mancanza di una concezione universalmente condivisa tra gli studiosi in merito a cosa rappresenti il lavoro nell’ambito della knowledge-based economy (Kelloway & Barling, 2000). Andando più a fondo nella questione, come suggeriscono Kevin Kelloway e Julian Barling (2000), sembra possibile evidenziare l’esistenza di tre principali approcci o modi di concettualizzare il lavoro nell’economia della conoscenza, altrimenti detto “knowledge work”.
Una prima via epistemologica è quella che considera quest’ultimo una professione (Kelloway & Barling, 2000). Con questa espressione non viene fatto riferimento alla generalità dei mestieri, ma ad un nucleo ben definito di attività professionali aventi in comune due caratteristiche molto specifiche: in primo luogo, l’appartenenza ai settori ad alta tecnologia o, più in generale, il forte impiego delle ICT nell’esecuzione delle prestazioni che esse richiedono (Choi & Varney, 1995, Dove, 1998); secondariamente, la necessaria presenza alle loro spalle di un background di studi accademici e di una corposa istruzione di livello medio-alto (Wuthnow & Shrum, 1983, Sammarra & Profili, 2012). Pertanto, alla luce dei requisiti che il mestiere dovrebbe presentare per poter ricevere l’appellativo di “knowledge work” secondo tale accezione, a questa cerchia di professioni potrebbero essere ricondotte per esempio quella dell’ingegnere, ma anche quella dello scienziato o, ancora, quella del fisico (Nomikos, 1989).
Particolare e alternativo è il ragionamento proposto da alcuni altri ricercatori (Ahmad, 1981, Brophy, 1987, Tampoe, 1993), i quali concepiscono il knowledge work a partire da un’angolazione molto differente: non alla luce delle peculiarità del lavoro in quanto tale e delle modalità relative al suo tipico espletamento (come per esempio l’appena citato utilizzo di ICT, piuttosto che l’appartenenza ad un settore high-tech), ma come se esso fosse una caratteristica personale, ovvero un patrimonio di attributi appartenenti al singolo individuo (Kelloway & Barling, 2000). Tra questi, per fare un esempio, vengono spesso inclusi quello della creatività oppure quello dell’innovazione (Brophy, 1987, Tampoe, 1993); si tratta di caratteristiche tipicamente estranee al paradigma industriale di tipo tradizionale e che dovrebbero contraddistinguere la persona che si trova immersa in questo nuovo scenario dell’economia e la sua capacità di supportare l’organizzazione a raggiungere i risultati sperati (Kelloway & Barling, 2000).
La terza strada utile a capire cosa sia il lavoro nell’economia della conoscenza è quella tracciata dall’economista austriaco Peter Drucker, la quale non lo intende né come professione, né come set di attributi personali, ma in termini di attività effettivamente svolta dall’individuo (Kelloway & Barling, 2000). Con questa impostazione Drucker pare tuttavia non voler attribuire il significato di knowledge work a qualunque contributo effettivamente fornito dal lavoratore, ma solo a quelle attività per la cui esecuzione prevalga l’impiego della mente su quello delle dimensioni fisica e atletica (Kelloway & Barling, 2000). Tale prospettiva di osservazione sembrerebbe dunque giustificare la tendenza attuale che vede alcuni studiosi (Castiello D’Antonio & D’Ambrosio Marri, 2011) affiancare al lavoratore l’espressione di “mentedopera” in sostituzione della termine più tradizionale di “manodopera”.

Al netto delle differenti sfumature sul piano definitorio appena elencate e dell’assenza di un consenso unanime in letteratura in merito all’idea di lavoro nella knowledge-based economy, ciò che sembra pacifico tra numerosi studiosi (Scarbrough, 1999, Kelloway & Barling, 2000, Miller, 2001, Sammarra & Profili, 2012, Turriago-Hoyos et alii, 2016) è che al suo interno possa essere ben identificato un protagonista o attore principale, vale a dire il cosiddetto “knowledge worker”. E paiono proprio questa figura emergente e i suoi tratti caratteristici una terza questione di notevole interesse nel momento in cui si indirizza uno sguardo verso il tema dell’economia della conoscenza. Questa particolare tipologia di lavoratore costituisce in un certo senso l’emblema dell’avvento del suddetto paradigma economico (Scarbrough, 1999) e, come evidenziato da Peter Drucker, risulta piuttosto distante da quella dei cosiddetti “lavoratori manuali” (o tradizionali) riconducibile al sistema economico di tipo tradizionale (Turriago-Hoyos et alii, 2016). A dimostrazione di ciò, è possibile identificare alcuni aspetti che consentono di comprendere i motivi della separazione tra le due tipologie appena citate e, al tempo stesso, di desumere la natura del knowledge worker.
L’elemento fondamentale che caratterizza il lavoratore appartenente alla knowledge-based economy e che lo differenzia da quello tradizionale è la componente-chiave da lui utilizzata e messa a disposizione dell’organizzazione per raggiungere i relativi scopi: non la propria manualità, ma la conoscenza (Scarbrough, 1999, Kelloway & Barling, 2000, Costas & Kärreman, 2016, Turriago-Hoyos et alii, 2016). Con l’accezione di conoscenza, accanto a quella appartenente al singolo dovrebbe essere presa in considerazione anche quella a lui trasmessa dai suoi colleghi o superiori grazie all’ausilio delle ICT (Scarbrough, 1999). A partire da questa prima peculiarità distintiva ne possono essere identificate alcune altre che sembrerebbero essere strettamente collegate o discendenti da essa.
In primis, una di queste è rappresentata dal possesso da parte del knowledge worker di un livello d’istruzione particolarmente elevato: se da un lato questo non è il tratto distintivo per antonomasia del lavoratore medio appartenente al modello industriale (costituito invece dalle abilità fisiche su cui viene posta grande enfasi da Taylor (1911) in avanti), dall’altro esso risulta l’antecedente fondamentale per lo sviluppo di quella conoscenza che verrà estrinsecata dal knowledge worker stesso nel momento dell’esecuzione della prestazione (Sammarra & Profili, 2012, Costas & Kärreman, 2016).

In secondo luogo, un ulteriore elemento di differenziazione tra il lavoratore tradizionale e quello dell’economia della conoscenza è dato dalla natura del risultato finale derivante dallo svolgimento della rispettiva performance: il primo risulta artefice di output di tipo materiale e tangibili, frutto della lavorazione manuale di materie prime originarie e semilavorati (Rullani, 2004) e dello svolgimento di compiti routinari e caratterizzati da monotonia (Costas & Kärreman, 2016, Turriago-Hoyos et alii, 2016); il secondo, invece, grazie all’impiego prevalente della propria conoscenza e di quella ricevuta da altre fonti per mezzo delle ICT (Scarbrough, 1999), fornisce come output principale un qualcosa di intangibile e di elevato valore, vale a dire nuova conoscenza (Blackler, 1995, Morris & Empson, 1998, Scarbrough, 1999, Sammarra & Profili, 2012), al punto da essere addirittura considerato un vero e proprio “generatore di conoscenza” (Turriago-Hoyos et alii, 2016: p. 5).

Infine, è possibile inquadrare un altro fattore di discrimine, ossia una serie di caratteristiche del knowledge worker “inedite”, che sembrano emergere in modo nitido proprio con la sua nascita e che disegnano una traiettoria di discontinuità rispetto al passato: dalla sensibilità (Ahmad, 1981), alla vena creativa e all’intuizione innovativa (Brophy, 1987, Tampoe, 1993), passando per l’autonomia e l’autoregolazione (Scarbrough, 1999). Ciascuna di esse risulta particolarmente difficile da riscontrare nel tipico lavoratore manuale di matrice taylor-fordista, in quanto costretto ad oscillare tra compiti fortemente ripetitivi e standardizzati (Turriago-Hoyos et alii, 2016), nonché definiti sulla base di rigorosi criteri di tipo scientifico da rispettare per ottimizzare tempistiche e movimenti lavorativi (Taylor, 1911).
Incrociando i vari elementi appena presentati che contraddistinguono e differenziano il “knowledge worker” dal “manual worker”, appare dunque possibile desumerne una sorta di definizione: il lavoratore tipo della knowledge-based economy è un individuo dotato di un livello di istruzione particolarmente alto (Sammarra & Profili, 2012, Costas & Kärreman, 2016), che impiega il proprio patrimonio di conoscenza (Scarbrough, 1999, Kelloway & Barling, 2000, Costas & Kärreman, 2016, Turriago-Hoyos et alii, 2016) insieme a quella proveniente da altre fonti (colleghi, superiori e altri stakeholder) per mezzo delle ICT (Scarbrough, 1999), allo scopo di generare ulteriore conoscenza (Blackler, 1995, Morris & Empson, 1998, Scarbrough, 1999, Sammarra & Profili, 2012); il tutto facendo ampio ricorso ad attributi quali creatività (Brophy, 1987, Tampoe, 1993), innovazione (Brophy, 1987, Tampoe, 1993) e un buon margine di autonomia (Scarbrough, 1999).

La figura del knowledge worker sembra essere in ascesa, al punto da essere considerata nella recente letteratura come in grado di sminuire l’importanza del manual worker di stampo tradizionale (Turriago-Hoyos et alii, 2016), sia nell’attuale scenario economico, sia in chiave prospettica (Sammarra & Profili, 2012). Ciononostante, pare ad ogni modo necessario effettuare una brevissima precisazione da un punto di vista critico. Focalizzarsi sul concetto di economia basata sulla conoscenza non deve indurre il lettore a generalizzare in maniera marcata (Sammarra & Profili, 2012). Pensare che mestieri caratterizzati da una componente manuale preponderante e spesso monotona non siano più affatto presenti, solo perché connotati da un limitato uso di conoscenza o perché schiacciati dal peso crescente del comparto dei servizi, costituirebbe una visione particolarmente distorta della realtà economico-produttiva (Sammarra & Profili, 2012); ancora al giorno d’oggi, infatti, esiste un più che ben nutrito gruppo di lavori di questo tipo (dalle officine meccaniche, alle imprese familiari del settore primario per citare due tra i possibili esempi), i quali permettono a numerosi individui e a famiglie di ottenere una remunerazione adeguata e funzionale al proprio mantenimento e alla conduzione di una vita più che dignitosa (Sammarra & Profili, 2012).

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Competenze e definizione dei profili professionali: quale ruolo per quale evoluzione?

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Informazioni tesi

  Autore: Alessandro Gensini
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2018-19
  Università: Università degli studi di Genova
  Facoltà: Economia
  Corso: Management
  Relatore: Teresina Torre
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 185

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