Odio i Pink Floyd - il punk inglese in un pugno di documentari
Il Punk Rock tra industria musicale e stile
L’industria musicale
Nell’anno dell’esplosione del punk, il 1976, un pugno di multinazionali controllavano il mercato discografico inglese e si occupavano di tutta la filiera dalla produzione alla distribuzione. Queste erano Emi, Cbs, PolyGram, Wea, Rca e Decca, case che producevano popular music per un pubblico più ampio possibile ed esteso in nazioni diverse. La peculiarità del mercato musicale consisteva nel fatto che il costo di lavorazione di un disco o nastro risultava irrisorio e una volta pagate le royalty e recuperati i soldi spesi per la produzione il guadagno ricavato da ogni singolo prodotto saliva esponenzialmente generando profitti altissimi. È il caso della band che dominava la scena musicale degli anni Settanta: gli svedesi Abba con il loro sound e la loro lingua, l’inglese della cultura pop dominata dagli Stati Uniti, “transnazionali”.
Essere “transnazionali” voleva dire avere prospettive enormi di successo e i guadagni ingenti ricavati dalle vendite permettevano ora alle major di investire alte somme di denaro per la registrazione e diventare sempre più esigenti in ambito tecnologico e creativo. I produttori più importanti con le loro abilità nella manipolazione del suono influenzavano sempre più il risultato finale divenendone coautori e il loro lavoro diventava imprescindibile per qualsiasi prodotto pop di qualità che puntasse al successo. Nel ’76 i musicisti consideravano ormai qualitativamente buoni solo i dischi costosi (ma il punk arrivò per smentire ciò). Per convincere le major ad investire su di loro questi musicisti dovevano garantire il successo commerciale ed erano sottomessi alle pretese delle grandi compagnie.
La fine degli anni Sessanta, con band quali Beatles e Beach Boys, intanto aveva dato i natali al “progressive rock” che accentuava la produzione meticolosa e costosa a discapito delle performance dal vivo. I live dovevano semplicemente riprodurre l’accuratezza delle registrazioni e fare da pubblicità per le vendite del disco. La musica diventava sempre più complessa e virtuosa, si affermavano i “concept album” e la durata delle tracce aumentava sempre di più. Queste band avevano scelto la strada
della laboriosità per distinguersi dallo stesso pop mainstream. A metà degli anni Settanta il mercato era dominato in primis dal pop di facile ascolto, dalla disco music e poi dal rock progressivo. Inoltre non pochi erano i gruppi o gli artisti che stavano a cavallo tra pop e rock e uno di loro, David Bowie, sarà molto significativo per la nascita del punk. Si sviluppavano in più nuove forme di promozione spesso troppo costose per essere rette da etichette più piccole, come quella televisiva dei “tv album” che divenne la prediletta dalle major.
Se negli anni Sessanta era stato il rock a dominare l’industria discografica, nella seconda metà degli anni Settanta la situazione si fece più confusa anche a causa della situazione problematica del panorama economico inglese: la disoccupazione e l’inflazione avevano intaccato la propensione all’acquisto di musica. Il ’76 è anche l’anno in cui i grandi spettacoli musicali raggiunsero il loro apice, ma si avvertiva il bisogno di un nuovo fenomeno “alla Beatles” in grado di ridare slancio all’industria discografica in crisi. Quale sarebbe stato l’evento in grado di scatenare tutto questo? I talent scout iniziarono a frequentare club e pub alla ricerca delle nuove star.
La scena pub rock londinese dei primi anni Settanta si scontrava proprio con il sistema dominante del pop e aveva incuriosito le case discografiche che però non seppero mai sfruttarla e ricavarne grandi vendite. Le band del genere prediligevano i live alle registrazioni ed erano nostalgici del passato, cercando di rinverdire i fasti del rhythm’n’blues e del rock’n’roll. Le loro canzoni erano semplici, immediate e le loro performance si svolgevano in intimità col pubblico al contrario della distanza voluta dalla superstar. Gruppi come gli Ace e Dr. Feelgood salirono in testa alle classifiche ma in generale le vendite del pub rock furono modeste probabilmente perché risultavano anacronistici. Gruppi come i già citati Dr. Feelgood o gli Eddie and the Hot Rods traghettarono il pub rock alla nuova ondata del punk, il quale rinnovò il pub rock con il dinamismo delle performance, il rifiuto del passato e un avvicinamento mai visto prima tra band e pubblico.
Il pub rock aprì la strada della registrazione al di fuori delle major e con il Nashville, locale chiave della scena, diede voce alle prime formazioni punk. Dalla scena pub nacquero le etichette indipendenti Chiswick e Stiff che rifiutavano la logica delle major e dal ’77 iniziavano a produrre i primi dischi punk e new wave, venduti soprattutto nelle esibizioni live, per posta o distribuiti a mano nei negozio. La logica da hit parade delle grandi case discografiche veniva così aggirata da queste indies così come aveva fatto il mercato dei collezionisti.
In ambito strettamente musicale il punk affermò la spontaneità e la ripetizione ai danni del virtuosismo progressive, e il termine venne dapprima usato nell’America dei primi anni Settanta per il garage, il proto-punk e band come i Velvet Underground del decennio precedente. Dalla seconda metà degli anni Settanta nacque però il punk britannico, con un’identità forte destinata a scacciare qualsiasi altro utilizzo del termine. Il punk britannico, come prima quello americano, era ostile alla popular music. Quest’ostilità era però adesso più radicale che mai: DIY, stile musicale primitivo, nuovi testi che infrangevano tabù erano le armi. In pieno logica fai-da-te il punk fece esplodere la moda delle fanzine, con la prima, “Sniffin’ Glue”, che contribuì in maniera fondamentale all’immagine del movimento. Le fanzine (il termine unisce “fan” + “magazine”) erano per una cerchia di affiliati e seguaci, non per tutti. La rivista di Mark Perry si autodichiarava infatti “PER PUNK” creando un pubblico apposito e una comunità che escludeva i non iniziati. Reclamava l’indipendenza dall’industria musicale e dalla stampa ufficiale con la creazione di strade alternative.
Le compagnie indipendenti erano adesso in numero assai maggiore rispetto al passato, molte di queste producevano solo pochi titoli ed erano dislocate dal centro nevralgico londinese. Con poche sterline queste etichette producevano dischi, dando una scossa alle grandi produzioni. Diventare un artista, quindi, non era mai stato così facile, quando però una band voleva raggiungere il pubblico nazionale era necessario fare una scelta: rimanere sul sistema di distribuzione indipendente o collaborare con l’industria musicale. La Stiff e la Chiswick optarono per la seconda strada, firmando un accordo con la Emi che si occupava della fase di distribuzione. Grazie a queste collaborazioni le etichette riuscirono a portare dei singoli punk al successo. La Rough Trade, invece, aveva cercato di mantenere la sua indipendenza dal business delle major controllando tutta la filiera dalla produzione alla distribuzione e rimanendo del tutto fedele all’etica DIY.
Qual è la logica dell’industria musicale? Le compagnie discografiche, dovendo allargare il pubblico il più possibile per vendere le copie, influiscono sulla stessa musica prodotta, spingendo sullo standard e la ripetizione di opere di successo. Il sistema delle royalty, inoltre, non cancella ma anzi ribadisce la priorità della casa discografica sul prodotto finito: il disco deve vendere, deve essere commerciale. Nella grande industria musicale gli artisti hanno un controllo minore sulla fase di registrazione e poche volte controllano la fase di marketing e distribuzione. Le piccole compagnie permettono invece ai musicisti una maggiore influenza sul proprio lavoro poiché sono molto più bassi i costi fissi da mantenere. Inoltre queste attribuiscono meno importanza ai valori di mercato e al raggiungimento della massa.
La differenza del punk derivava da come questo veniva distribuito e commercializzato – come musica indipendente – oltre che dalle sue caratteristiche musicali intrinseche.
Il punk non colonizzò mai né il mainstream musicale né le classifiche, almeno al livello degli artisti beat del biennio 1963-64, perché i modelli di successo erano altri: nel ’77 solo tre album nella Top 50 erano di genere punk. In quanto a vendite il punk non era stato in grado di eguagliare il precedente modello degli anni Sessanta, ostacolato dal rivale numero uno: la disco music. Alcuni settori dell’industria musicale come le radio, inoltre, ostracizzavano la scena, che era spesso oggetto di censura e di astio da parte dei media. L’esclusività e la “negatività” punk erano, da questo punto di vista, controproducenti.
La disco music sfondò nel mercato del biennio 1977-78 grazie a La febbre del sabato sera (Saturday Night Fever, John Badham, 1977) e avrebbe lasciato poco spazio al punk poiché era musica per ballare, e la ballabilità, come ci ricorda Dave Laing, è un elemento imprescindibile di qualsiasi musica che voglia rimodernare il mainstream. Lo stesso rock’n’roll anni Sessanta riuscì a diventare un evento importante perché era ballabile. La danza del punk, “non musica” per eccellenza, era il pogo, una “non danza” degenere: il pogo trasformava il ballo in qualcosa di vuoto e bestiale che non serviva più per corteggiare, pertanto non poteva che essere respinta dal grande pubblico.
La disco per di più funzionava perché era radiofonica e la radio è un mezzo fondamentale per la divulgazione della popular music. La programmazione del tempo era dedicata perlopiù all’”easy listening”, un tipo di musica che non doveva disturbare l’ascoltatore mentre il punk, come sappiamo, era un genere volutamente “disturbante” e non poteva passare per radio se non in programmi specialistici. Dopo l’incidente in tv con Bill Grundy e la pubblicazione di God Save The Queen la situazione peggiorò e si instaurò un vero e proprio “panico morale” nei confronti della scena. Il singolo fu bandito dai negozi, dalle radio e dai giornali che si rifiutavano di pubblicare il volto della regina modificato da Reid. Il disco si poteva trovare solo in piccoli negozi, una catena lasciò addirittura lo spazio numero due della classifica vuoto, e lo si poteva ascoltare solo in privato. Ma questo stesso processo non faceva altro che aumentare l’interesse nei confronti del singolo perché acquistarlo voleva dire avere qualcosa che si distingueva nettamente dalle solite hit radiofoniche.
Sebbene nessun gruppo a parte i Pistols venne licenziato dalle grandi compagnie, queste spesso subirono la censura delle radio o il divieto di tenere i dischi nelle vetrine. L’annullamento dei concerti e lo scandalo generale non faceva che isolare il punk dal mainstream: mentre il consumo veniva incoraggiato dalla produzione di dischi, la sua visibilità era ridotta a causa della mancanza di spazi mediatici e locali dove suonare.
Eppure questa opposizione era essenziale per l’identità stessa del movimento: il punk veniva istituzionalizzato sia col contributo interno pro-punk sia col contributo esterno, ostile e non, della stampa, della radio, della televisione e degli esperti del settore.
Quando però molti gruppi passarono alla new wave o alla firma di contratti con la grande industria la “diversità” del punk venne meno e il punk divenne una variante del rock mainstream. All’apice del successo del movimento i gruppi più intransigenti, esclusivi e meno assimilabili al mainstream morirono rapidamente.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Odio i Pink Floyd - il punk inglese in un pugno di documentari
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Informazioni tesi
Autore: | Davide Marino |
Tipo: | Tesi di Laurea Magistrale |
Anno: | 2017-18 |
Università: | Università degli Studi di Bologna |
Facoltà: | Lettere |
Corso: | Cinema, Televisione e Produzione Multimediale |
Relatore: | Gino Scatasta |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 137 |
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