L'abbandono della ruralità: la riscoperta della cascina per l'affermazione di un paesaggio consapevole
Il ruolo socioculturale delle cascine milanesi
Nel vasto territorio lombardo, diversi sono i segnali e i ruderi che colorano i campi di granoturco, immersi tra le spighe dorate tipiche della stagione estiva inoltrata; eppure nessuno segno nel territorio può essere tanto esplicativo come la cascina. Essa è l’emblema del ricordo del passato agricolo del Paese ed ancora oggi, mentre alcune sono state ristrutturate e hanno subìto un cambio di funzionalità di utilizzo, molte ancora si ergono abbandonate come navi dopo una tempesta nella nebbia autunnale.
La trasformazione della realtà agricola, l’innegabile tirannia della città sulla campagna, una vorace urbanizzazione ed industrializzazione, il miglioramento delle tecnologie di lavorazione e la creazione di arterie di collegamento, hanno contribuito insieme ad altri fattori geofisici, alla modifica dell’aspetto del paesaggio rurale italiano, soprattutto nel caso lombardo e in particolar modo nella provincia di Milano. Questo cambiamento è stato particolarmente evidente nel territorio della suddetta provincia lombarda, in quanto Milano è stata uno dei vertici del triangolo industriale, che si completava con le città di Genova e di Torino, trainando tutto il resto della penisola verso un’industrializzazione inevitabile, che da sola avrebbe permesso di essere competitivi sul piano internazionale. Dunque le prime grandi modifiche dell’assetto urbano, la presenza delle industrie nelle città poi decentrate verso zone più periferiche ma raggiungibili dagli operai, la creazione di una city economica al centro della città, hanno condotto ad un veloce spostamento delle attività all’esterno della città, quando ormai la qualità della vita dei cittadini doveva essere meglio tutelata.
Questo insieme di fattori, in unione con la ricerca da parte della cittadinanza di una miglior vivibilità dei luoghi che non fossero eccessivamente lontani dalla propria città, ma vicini al luogo lavorativo, ha dato vita al fenomeno della rururbanizzazione.46Si è progressivamente creata una zona ”grigia”, una zona di frangia, in cui i costumi della società urbana hanno sostituito quelli classici della vecchia ruralità, unendo alla visione del campo, inteso come elemento naturale, lo stile di vita urbano. Quindi vi è stata la successiva escalation di speculazione edilizia che ha permesso ai costruttori di cancellare l’antica funzionalità della campagna, per sfruttarla a fini residenziali. In questi termini è semplice comprendere come la struttura tipica della società rurale non potesse corrispondere ad una costante affluenza di popolazione e che le cascine in particolare venissero eclissate e consacrate a rudere nella maggior parte dei casi.
L’etimologia della parola cascina non risulta del tutto chiara, sebbene appaia indissolubilmente legata al concetto di “contenitore”. La derivazione è forse legata al diminutivo del latino volgare “capsia” a propria volta da “capsa”, col significato di “cassa, recipiente” oppure da “capsus”, “recinto per le bestie selvaggie”.
L’idea della cascina dunque come insieme di altri edifici, non solo contenente una strutturalità fisica, ma anche un insieme di valori culturali condivisi, trasmutandosi in un universo di saperi e di mestieri.. Nel nord Italia viene comunemente intesa come un complesso di fabbricati distinti raccolti attorno ad un grande cortile; già da questa definizione si riesce bene a delineare uno degli elementi fondamentali per la vita contadina e la società rurale, cioè il cortile, il luogo dove la comunità afferma la sua esistenza nella società.
Il concetto di “comunità” è considerato tipico delle epoche pre-industriali e delle aree rurali, contrariamente a quanto accade per la “società” nella quale avvengono scambi e che pone le sue radici durante la rivoluzione industriale. Le aree rurali vengono considerate emarginate dal progresso socioculturale e che non pongono in essere le problematiche strutturali della differenziazione sociale, derivante dal processo di modernizzazione, e che dunque perseguono una filosofia di conservatorismo.
Il cortile diventa il principale luogo vissuto della realtà contadina perché essendo esterno permette la convivenza di più attività, per cui si può assistere a diversi passaggi della lavorazione: il trasporto del fieno, l’alimentazione degli animali, la mungitura delle mucche, l’accumulo del concime, ma anche unire a ciò la matrice domestica e dunque ad esempio lo spazzare l’aia, la scelta e la raccolta delle verdure provenienti dall’orto, la cura dei bambini e la cura della casa. Diventa il luogo della concretizzazione della vita rurale, composta di riti che permettono la sua identificazione tramite i gesti della ripetitività quotidiana. Anche il termine “aia” deriva dal latino “area”, cioè “spazio libero, aia” ed indica un’area contigua alla casa rurale, un luogo di solito pavimentato in ciottoli, piuttosto che in cemento, sul quale vengono effettuate le varie manipolazioni del prodotto agricolo. Inestricabilmente legato alla parola “cortile” derivante a sua volta “corte”, che a sua volta indica uno spazio scoperto situato entro il perimetro di uno o più fabbricati per dar luce e aria alle stanze che vi si affacciano, permette di visualizzare quale importanza strategica questa parte della cascina potesse ricoprire.
Nel mondo rurale, le case sparse sono quelle situate generalmente ognuna sul fondo rustico nel quale la famiglia coltiva vari prodotti, generalmente ortaggi, cereali o leguminose, e che diventa quindi il sostentamento della famiglia stessa. Un nucleo si forma quando si ha un aggregazione di alcune case rurali che sono dunque riunite in un gruppo; mentre le case sparse sono disperse sul territorio in base alla lottizzazione della terra. Ogni modello di insediamento, il villaggio o la singola casa, sono frutto non solo di scelte strategiche ed economiche ma anche il frutto della storia che ha posto le basi per lo sviluppo dell’insediamento in quell’area. Le cascine e le corti lombarde, insieme alle boarie ferraresi e ai cascinotti piemontesi, costituiscono l’esempio più specifico di case sparse: esse sono presenti all’interno di una società rurale più evoluta e avanzata, sia dal punto di vista produttivo sia in base alle tecnologie usate sui campi.
Sebbene non tutte le strutture presentino un eguale aspetto, a causa di varie modifiche apportate alle strutture in relazione all’architettura ed i materiali usati, alle condizioni meteorologiche e quelle economiche, vi è sempre la presenza sia dell’abitazione umana sia della stalla, oltre al ricovero per i prodotti. La casa ad elementi sovrapposti è quella che presenta un rustico al pianterreno e l’alloggio al piano superiore, mentre quella ad elementi giustapposti presenta l’alloggio e stalla o il fienile posti in posizione adiacente; entrambe queste tipologie di strutture rientrano tra le forme unitarie delle case rurali, situando sotto uno stesso tetto diversi ambienti, si ha un contenimento economico.
Laddove l’allevamento riveste un ruolo notevole nella società, si assiste alla formazione di case rurali in forma complessa; si creano dei veri e propri agglomerati che accolgono le abitazioni, sia del conduttore che dei salariati fissi, stalle, fienili, porcili, sili e le rimesse per le macchine agricole. Si possono ulteriormente distinguere due tipi strutturali: la casa a corte e la casa ad elementi separati.
La casa a corte è caratterizzata dalla distribuzione degli edifici attorno ad uno spiazzo quadrato, l’aia o il cortile, mentre la casa ad elementi separati si distingue per la collocazione degli edifici in modo sparso ma attorno ad un determinato punto centrale, che funge sempre da cortile. Emerge dunque l’aspetto anche strutturale e non solo culturale del cortile, che posto al centro tra le varie altre strutture non può che svolgere la funzione di intermezzo, di collegamento tra le abitazioni, obbligando la popolazione al suo attraversamento, creando dunque delle dinamiche interne alla cascina.
Nel caso esemplare della corte lombarda è necessario distinguere tra corte “monoaziendale” e corte “pluriaziendale”. Sebbene siano fondamentali per l’identificazione della tipologia di economia e dunque anche di società presente localmente, diventa essenziale la loro distinzione a livello paesaggistico, dato che imprimono al territorio locale diverse forme. Nel caso della corte “monoaziendale” si assiste alla presenza di un vasto appezzamento di terra che viene lavorato dai salariati fissi, dipendenti dal conduttore, mentre nel caso della corte “pluriaziendale”, si assiste alla creazione di lotti di diverse dimensioni frazionata tra piccoli proprietari.
La vita in questi centri rurali è stata da sempre imperniata sull’attività agricola, sebbene attualmente gran parte della popolazione tragga i mezzi di sostentamento da attività ausiliari all’agricoltura, generalmente nel settore artigianale o commerciale. Le coltivazioni principali sono quelle che permettono la sopravvivenza dei contadini e il mantenimento della qualità della vita nel contesto urbano: grani, soprattutto frumento, alberi da frutto, ortaggi, leguminose e altre legnose. Importante nel contesto della cascina dunque non solo è il campo, ma anche l’orto, che permette di variare la povera alimentazione grazie ai prodotti di stagione e che impegnavano principalmente le donne, soprattutto al momento della raccolta.
Per i contadini, il campo non costituiva esclusivamente la principale modalità di sopravvivenza; ovviamente focus del contadino era quello di riuscire a trarne abbastanza prodotto per sfamare la propria famiglia e per la vendita sul mercato locale, ma nell’organizzazione del campo stesso si ricercava un’estetica. I diversi lotti coltivati a frumento, separati da alberi da frutto, non erano semplicemente segno di una possessione, ma anche di una volontà collettiva, quasi sacrale di poter mantenere, nel particolare silenzio delle spighe, un legame con la terra stessa; attraverso una elaborazione silenziosa e continua, ma mai profondamente incisiva del terreno, si raggiungeva un ideale di connessione con il mondo stesso.
Il paese, il villaggio rurale e la cascina sparsa, fino al primo dopoguerra, costituiscono un universo sociale: l’importanza della famiglia, il ruolo della religione e delle tradizioni, la solidarietà e la lealtà lavorativa, le relazioni sociali nella corte ma anche con il vicinato, sono caratteri specifici della ruralità. La vita è ritmata non già dalle tempistiche moderne, ma dai calendari delle semine, che variano in ogni regione ma che costituiscono la base del saper vivere contadino, creando un unicuum anche culturale nella penisola.
Nel secondo dopoguerra, si assiste alla scomparsa progressiva, ma inevitabile, dei terreni agricoli sacrificati all’industria e all’annullamento della società rurale in favore di dinamiche più moderne. L’introduzione della chimica nelle coltivazioni, lo stravolgimento dei calendari delle semine, la sostituzione della policoltura con la monocoltura, ma soprattutto la meccanizzazione del lavoro agricolo, cancellano il ricordo delle campagne curate dagli uomini.
Con l’avvento dell’industrializzazione, il contadino non svolge più un ruolo utile alla sua società, venendo emarginato e subendo lo stravolgimento del paesaggio che aveva creato: la società rurale, così profondamente connessa con il territorio, si inabissa sempre di più a partire dal secondo Novecento.
La vita faticosa e lentamente ritmata dalle semine, trovava una luogo di pausa e di tranquillità nel cortile o aia, che pur sempre affollato, donava la possibilità di vivere davvero e pienamente la comunità e lo stile di vita collettivo. Il contadino, il fittavolo, i massari e i braccianti sono difatti parte del paesaggio stesso, in quanto lo formano tramite il lavoro e ne fruiscono tramite l’abitabilità del luogo e la “proprietà” affettiva dello stesso: quest’ultima variabile cessa di esistere con l’avvento delle industrie e con l’espansione dei centri cittadini, che rubano quel contatto stretto tra un territorio e il suo primario fruitore.
Attualmente il lavoratore che ancora si occupa delle coltivazioni e dunque è impegnato nel rurale, viene definito “agricoltore” o “contadino”; questa definizione risulterebbe insufficiente ad un’analisi storica più approfondita, perché vi erano diverse denominazioni in base al lavoro svolto. Il “pigionate” era il contadino più povero, che aveva poca terra e che, non possedendo animali, doveva lavorare la terra direttamente; il “massaro” era un contadino relativamente agiato, che possedeva animali e attrezzi da lavoro e si occupava di un terreno di maggior estensione; i “brazanti” erano contadini senza terra, molto poveri e presenti in numero esiguo sul territorio regionale. Le famiglie dei pigionati erano generalmente più piccole, composte da genitori, figli, e in qualche caso, anche da qualche parente; mentre le famiglie dei massari erano generalmente più grandi, composte da più gruppi famigliari che vivevano congiuntamente. Un numero maggiore di famiglie significa un agglomerato strutturale, un nucleo abitativo più esteso rispetto alla famiglia singola; si assiste dunque ad un influsso diretto tra l’inquadramento lavorativo, la composizione famigliare e, ovviamente, la parcellizzazione dei campi e la costruzione delle strutture rurali.
Il mondo rurale viene percepito infatti come un sistema, e cioè come un insieme strutturato di elementi che si combinano, formando dunque un insieme ordinato, in cui ogni componente esplica un ruolo, una funzione vitale e determinante per il mantenimento dell’insieme stesso. Dunque il singolo contadino, la singola donna impiegata nel lavoro della raccolta o attualmente immaginiamo nella gestione delle questioni burocratiche o assicurative della cascina, oppure i bambini impiegati in attività lavorative insieme ai genitori, il proprietario ed il fittavolo della modernità ed il singolo proprietario attuale impiegato anche in altre attività “secondarie”, non possono essere valutati nella loro singolarità, perché esistono e sono “qualificabili” solo in presenza della comunità.
Nel passato della modernità, dunque dalla seconda metà del Settecento alla seconda metà del Novecento, il cortile aveva un’unica funzionalità annunciata; sul cortile veniva ammassato il concime, il foraggio, si effettuavano lo sgranamento a mano quando le macchine ancora non avevano invaso le campagne, qui vengono depositate le balle di fieno già pronte per il trasporto. Su questo luogo si affacciano le stalle, ospitanti le bestie da cortile principalmente sfruttate nell’attività contadina della bassa Lombardia, cioè i bovini e suini, più raramente ovini ed equini, i sili, contenenti tutto il raccolto precedentemente ammucchiato e trattato ed i fienili, che permettono di accumulare il fieno, dunque anche il foraggio ed il letame per il concime, oltre ai granai, ai pozzi, ai mulini, ai caseifici e ad altri edifici adibiti allo svolgere della vita contadina.
Le cascine della bassa Padania sono generalmente molto più grandi di quelle situate nella parte irrigua della medesima pianura, e soprattutto nel passato costituivano piccoli e veri centri, molto spesso isolati dal centro del comune di appartenenza. Spesso le strutture rurali a sud di Milano ospitavano anche venti o venticinque famiglie, contando su un totale di un centinaio di lavoratori, che non rispondevano direttamente al proprietario dello stabile, ma al fittavolo, dunque a chi svolgeva le mansioni di gestione ed organizzazione al posto del legittimo proprietario assenteista.
Nello svolgere le numerosi mansioni nel cortile, la società rurale locale si ritrovava, condividendo uno spazio comune: dunque con lo sgranamento o i lavori di raccolta dell’orto, le donne e le figlie femmine avevano modo di socializzare, mentre gli uomini erano impegnati nelle lavorazioni stagionali nei campi, insieme ai figli maschi. Il chiacchiericcio scambiato durante la faticosa giornata, e che colorava la campagna di sfumature più umane e vissute, diminuiva durante la sera, quando altro obiettivo non c’era, se non quello del riposo, della tranquillità. Vi erano occasioni in cui questa socializzazione, basata sulla parola e la fatica, cessava totalmente per dar spazio ad un’altra tipologia di affiatamento comunitario e collettivo: i riti sacri.
Nella società lombarda preindustriale, la messa, la festa patronale o qualsiasi atto religioso richiesto per la protezione delle colture e dei campi, divenivano un modo per unire ancora di più la comunità, andando a creare un vero e unico complesso sociale, che si legittimava in quanto partecipante agli stessi processi religiosi, condividendo un medesimo bagaglio di segni e di significati. La sacralità religiosa diveniva quindi il leit motiv della forte unione di questa società che, ancora nel Novecento, era molto chiusa e conservatrice; l’atto religioso diventa quindi simbolo che spiega e giustifica il conservatorismo dei processi mentali e sociali, in quanto non si conoscevano altre forme di aggregazione al di fuori della religiosità stessa.
L’attualità dello stile di vita contadino o rurale è ben diverso da quello passato; presupponendo che la campagna abbia perso il ruolo trainante dell’economia a partire dagli anni ’50 del Novecento, e che abbia subito l’infiltrazione veloce ma non
organizzata della città, non essendo più legata alla funzionalità primaria, anche la cascina ha perso il suo antico primato di centro economico d’eccellenza.
Dall’ultimo censimento dell’Istat sull’agricoltura è emerso che le aziende agricole sono passate da essere 70.993 nel 2000 a 54.333, registrando una diminuzione di 23,5%; c’è stato uno spostamento delle attività dal primo al secondo settore nella regione Lombardia, con un decremento anche della popolazione impegnata in attività agricole.
Implicitamente quindi anche il ruolo della cascina e della corte cambia, non ospita più un gran numero di lavoratori, dato che grazie alla meccanizzazione essi si sono ridotti, ma poche persone che utilizzando le macchine agricole, in unione con lo sfruttamento della tecnologia e le innovazioni genetiche, riescono ad ottenere un raccolto e quindi un guadagno molto alto. La meccanizzazione delle campagne ha introdotto anche un’altra variante nella vita dell’individuo: la diminuzione dei tempi dedicati al campo o al raccolto o agli animali da cortile; questo ha reso possibile dedicarsi pienamente anche ad altre attività, in modo che non tutti i membri della famiglia debbano sacrificarsi nei campi.
Se da un lato questi passaggi culturali e sociali hanno permesso una maggior mobilità e anche la scoperta di un nuovo modo di vivere, prima lontano dalle logiche della campagna, dall’altro hanno anche piegato la vita sociale delle cascine. Il cortile viene abbandonato e torna a rivivere realmente come luogo di scambio e di convivialità quando si organizzano eventi per mantenere attiva la cascina: l’istituzione di un agriturismo, l’organizzazione delle feste di paese, la cessione di una parte della struttura per la creazione di alloggi, oppure tramite la riscoperta del suo valore, avvicinando i giovani a questa realtà, ad esempio con il cinema in cascina, alcuni workshop collegati ad attività manuale. E ancora, eventi come “Cascine Aperte” o “I sabati musicali in cascina”, sono occasioni per non lasciar morire uno dei primi luoghi di aggregazione
dell’individuo; se morisse il cortile, declinandolo a semplice spazio in cemento o ciottoli, senza vita e storia, incapace di raccontarci il duro ma anche felice passato di chi lì ci ha camminato, morirebbe anche l’essenza stessa della campagna, non solo lombarda, ma anche italiana.
La campagna, abbandonata dalla popolazione locale attratta dalle nuove prospettive di un’economia meno faticosa, si sta ripopolando grazie alle ondate migratorie che permettono il mantenimento della funzionalità della cascina e dei campi. La massiccia presenza straniera nel settore primario rappresenta una novità in un paese di recente immigrazione come l’Italia; ci si trova quindi a rapportarsi con contadini indiani sikh, oppure con pakistani, serbi, algerini, ecuadoregni, albanesi che fanno rinascere quelle strutture abbandonate tra le spighe di grano.
Dal sesto Censimento dell’Agricoltura in Lombardia emerge una non trascurabile presenza di stranieri impiegati come manodopera nel settore rurale come forza lavoro extra famigliare. Nelle zone collinari la presenza di stranieri provenienti dai paesi dell’Unione Europea rappresenta il 33,6% della manodopera non famigliare, mentre in pianura prevale la componente straniera extra-comunitaria, rappresentando il 31,5% del totale della forza lavoro esterna. Nelle fasce montane queste percentuali sono minori, dovute generalmente ad una carenza di opportunità lavorative, oltre alle problematicità climatiche e sociali.
Emerge dunque una nuova dinamica all’interno del contesto rurale, soprattutto grazie alla presenza di manodopera straniera, più giovane e più predisposta a svolgere il lavoro duro e faticoso in campagna. Per questa ragione si è sempre più coinvolti in relazioni culturali differenti; si rende possibile un dialogo culturale anche attraverso l’esperienza lavorativa. Sono oltre 16.000 gli stranieri che mantengono in vita le nostre cascine, un patrimonio economico, oltre che sociale e culturale: il Nord Africa prevale nella zona del Lodigiano, mentre si respirano aria e profumi indiani nelle cascine tra Cremona, Brescia e Mantova.
Risulta dunque fondamentale riuscire a superare le barriere sociali e le convinzioni culturali legate all’aspetto negativo della presenza straniera nel contesto lavorativo italiano, perché in un mondo estremamente globalizzato come quello attuale e in un mercato sempre più attivo e competitivo, non si possono alzare barriere. Diventa necessario riuscire ad includere e non escludere le popolazioni con caratteristiche culturali diverse dalle nostre; in molte località lombarde alle feste patronali si sommano ormai rituali e festività indù, portate in questo territorio dalla popolazione indiana che lavora nei campi e nelle stalle che una volta rappresentavano l’orgoglio padano. Solo attraverso la conoscenza e l’apertura verso il diverso, riusciremo a diventare competitivi in un’ottica non solo economica, ma anche sociale tramite processi di integrazione e accettazione.
Questo brano è tratto dalla tesi:
L'abbandono della ruralità: la riscoperta della cascina per l'affermazione di un paesaggio consapevole
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Informazioni tesi
Autore: | Giulia Zaninelli |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2013-14 |
Università: | Università degli Studi di Milano |
Facoltà: | Lettere |
Corso: | Scienze umane dell'ambiente, territorio e paesaggio |
Relatore: | Alice Dal Borgo |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 83 |
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