Il margine con la morte. Near-death experiences: prospettive a confronto
La formazione delle memorie nelle Near-Death Experiences - NDE
Un ampio dibattito tra teorici in-brain e out-of brain si è aperto in merito alla possibilità che la mente, in condizioni di incoscienza, possa mantenere traccia degli eventi occorsi durante tale stato. Dai resoconti delle NDE emerge infatti non solo che le persone sopravvissute ricordano ciò che è avvenuto con grande lucidità, ma che spesso sono stati in grado di riportare dettagli molto specifici su ciò che è stato fatto o detto mentre erano incoscienti o clinicamente deceduti.
La questione delle memorie ha sollevato quindi due ordini di questioni, una inerente alla possibilità che la coscienza rappresenti un‘entità autonoma, che può operare anche in modo disincarnato (Mays & Mays, 2008), l’altra ai processi involventi la formazione delle memorie durante le NDE (Palmieri et al., 2014).
Le teorie riduzioniste si sono soffermate solo su questo secondo aspetto della problematica, e hanno proposto diverse ipotesi per spiegare come sia possibile che si formino dei ricordi durante stati di incoscienza.
Tra le interpretazioni materialiste che hanno ricevuto maggiori critiche, vi è l’ipotesi che tali memorie vadano in realtà formandosi in un momento temporale diverso da quello durante il quale i pazienti ricordano di avere avuto l’esperienza NDE (Agrillo, 2011), ossia prima o dopo il periodo di incoscienza. Secondo i teorici “in-brain“, nei periodi precedenti e successivi la perdita di coscienza, il paziente, nonostante le condizioni critiche, potrebbe avere avuto accesso ad alcune funzioni cerebrali, tra cui quelle connesse alla formazione delle memorie.
Tra gli studi dei teorici “out-of-brain“ questa ipotesi è stata ritenuta del tutto speculativa e priva di evidenza, considerando che nella letteratura medica cardiaca è noto lo stato confusionale e amnesico in cui il paziente si trova sia prima sia dopo l’arresto (Aminoff et al., 1988; Parnia & Fenwick, 2002; Van Lommel et al., 2001).
Van Lommel et al. (2001), allo scopo di invalidare l’argomentazione di matrice riduzionistica sulla formazione delle memorie nelle NDE, hanno pubblicato un importante studio su una popolazione di pazienti cardiaci, conducendo una serie di interviste ai sopravvissuti dopo pochi giorni dal loro ritorno in vita. Lo scopo di tale ricerca, in seguito ampiamente dibattuta, era verificare se i pazienti recano qualche memoria del periodo di incoscienza avuto e se, durante quel periodo, sono in grado di rievocare il ricordo della loro esperienza pre-morte.
Come risultato di questa indagine (Van Lommel et al., 2001) emerse che nel 18 % dei pazienti era presente qualche ricordo proveniente dal periodo di tempo in cui erano clinicamente incoscienti. Dopo questi risultati Van Lommel conclude che non c’è alcuna evidenza in grado di mostrare come fattori psicologici, neuropsicologici o fisiologici possano essere coinvolti nella rievocazione di memorie dopo l’arresto cardiaco, dal momento che tutti i pazienti erano clinicamente morti e del tutto incoscienti.
Val Lommel et al. (2001), fanno notare inoltre come non tutti i pazienti dopo l’arresto cardiaco riportano di avere avuto NDE. Se quindi si trattasse, come hanno proposto i teorici “in-brain“, dell’effetto conseguente all’anossia cerebrale, dovremmo riscontrare la presenza di memorie di NDE in tutti i pazienti sopravvissuti e non solo in una parte.
Alcuni teorici “in-brain“ hanno obbiettato che la presenza di un tracciato elettroencefalografico piatto non esclude la possibilità che vi siano residui di attività mentali che non sono stati rilevati e quindi è possibile che il paziente non fosse in realtà del tutto incosciente nel periodo in cui ricorda di avere vissuto una NDE (Agrillo, 2011).
Questa considerazione è nata dal momento che molto delle critiche dei teorici “out-of brain“ hanno fatto leva sull’argomentazione relativa allo stato di incoscienza durante il quale le esperienze pre-morte si sono verificate, per delegittimare la validità delle ipotesi riduzionistiche.
A tale riguardo Greyson (2010) argomenta che il problema principale è in realtà ad un altro livello, poiché non si tratta tanto di stabilire se è presente o meno dell’attività residua cerebrale di qualche genere, rilevabile o meno, ma piuttosto di individuare le condizioni necessarie e sufficienti affinché possa aver luogo la manifestazione delle attività della coscienza.
Per i teorici “in-brain“, il substrato cerebrale e la sua attività rappresenta un‘ineludibile ed indispensabile condizione, senza la quale nessuna coscienza è possibile, mentre secondo i teorici “out-of brain“ le attività della coscienza possono manifestarsi anche al di fuori dell’attività cerebrale come ordinariamente intesa (Agrillo, 2011).
Più nello specifico, anche ammettendo che durante l’arresto cardiaco possa essere sopravvissuta dell’attività cerebrale residua non rilevabile o non rilevata, data la grande vulnerabilità dell’ippocampo rispetto agli effetti dell’anossia (Vriens et al., 1996), risulta poco verosimile che il processo di formazione di una memoria così vivida e complessa come quella delle NDE possa avvenire all’interno di una così grave compromissione cerebrale.
Il ruolo svolto dall’ippocampo nella formazione dei ricordi è infatti fondamentale e il danno neuronale conseguente al processo anossico in fase di arresto circolatorio, anche volendo coinvolgere il contributo energetico fornito da una capacità cerebrale residua, è comunque di tale debole entità da rendere inverosimile qualunque spiegazione delle memorie delle NDE basata sul riferimento ai soli correlati cerebrali implicati (Agrillo, 2011).
Strettamente connessa alla questione delle memorie delle NDE c’è un altro aspetto della fenomenologia pre-morte che le ipotesi riduzionistiche, secondo Greyson (2010), non sono riuscite a spiegare con adeguatezza di argomenti: il fenomeno delle memorie provenienti dell’esperienza OBE ed in particolar modo il loro contenuto.
La presenza di fenomeni di fuoriuscita dal proprio corpo è rilevabile in circa il 48% dei resoconti di persone che hanno avuto esperienze pre-morte (Greyson, 2010) e queste descrizioni oltre ad essere estremamente accurate, contengono spesso dettagli veridici su eventi occorsi nella vicinanza del corpo fisico mentre la persona era incosciente (Kelly et al., 2007) e talvolta anche informazioni relativi ad eventi avvenuti in un luogo fisicamente lontano rispetto a dove il paziente dichiara di vedere il suo corpo fisico. Secondo la prospettiva materialista l’esistenza di questa componente della fenomenologia è spiegabile tramite il coinvolgimento di processi retrospettivi di ricostruzione mnestica, avvenuti quando il paziente era ancora semi-cosciente.
I teorici “in-brain“ insistono sul fatto che la mente sia continuamente impegnata nel tentativo di risolvere l’ambiguità intrinseca dell‘informazione in entrata, e su come per fare questo tenda a reclutare processi di costruzione attiva dei significati dell‘esperienza (Braithwaite, 2008), allo scopo di formare interpretazioni dotate di coerenza interna.
In questo senso, secondo i riduzionisti, è quindi possibile ipotizzare che le NDE rappresentino il tentativo naturale messo in atto dalla mente per ripristinare una rappresentazione stabile e realistica di un evento, laddove molte delle informazioni necessarie per una tale ricostruzione, che in condizioni ordinarie sarebbero necessarie, sono venute a mancare (Blackmore, 1993a; Claxton, 2005; Morgan, 2003). Emergerebbe pertanto come esito di questo processo, la memoria di un‘allucinazione dotata di estrema realisticità, come strategia funzionale compensativa in cui sarebbero coinvolti meccanismi di natura neuropsicologica e cognitiva (Braithwaite, 2008).
A tale riguardo Sabom (1982) ha creato uno studio avente lo scopo primario di verificare la verosimiglianza dell’ipotesi della ricostruzione mnestica avanzata dai riduzionisti, suddividendo un gruppo di pazienti sopravvissuti ad un infarto in due gruppi in base al criterio della presenza o meno di un‘esperienza pre-morte.
Ciascuno dei due gruppi è stato intervistato, chiedendo di riportare ciò che ricordavano della procedura di rianimazione cardiaca e se avevano inoltre ricordo di un‘esperienza fuori dal corpo, e i risultati ottenuti da ciascun gruppo sono stati confrontati. Dai risultati è emerso che nell’intero campione scelto l’80% fa al massimo un errore nella descrizione della procedura di rianimazione e che nello specifico gruppo di coloro che riportano di avere avuto una OBE, non viene commesso alcun errore (Sabom, 1982).
Da questo studio Sabom (1982) rileva inoltre un dato molto interessante, ossia che nel 19% dei casi appartenenti al gruppo di coloro che hanno avuto una NDE, i pazienti sono
stati in grado di riportare con estrema accuratezza dettagli molto specifici degli eventi in corso mentre venivano rianimati.
Per spiegare tali fenomeni i riduzionisti hanno preso in considerazione il ruolo dell’aspettativa nel creare false memorie e il persistere di una sensibilità uditiva durante il periodo di incoscienza, attribuibile alla persistenza non rilevabile di attività cerebrale residua o ad un‘anestesia non sufficientemente profonda (Blackmore, 1993a; Saavedra- Auguilar & Gomez-Jeria, 1989; Woerlee, 2004).
Secondo Greyson (2010) qualunque spiegazione riduzionista applicata alle memorie nelle OBE rimane comunque inadeguata, qualunque sia l’ipotesi cui si faccia riferimento per spiegare tale fenomenologia delle esperienze pre-morte.
La prima critica che Greyson (2010) solleva è in linea con quanto già altri autori hanno rilevato circa lo stato confusionale precedente e successivo alla perdita di coscienza (Aminoff et al., 1988; Parnia & Fenwick, 2002; Van Lommel et al., 2001).
La seconda critica di Greyson (2010) alle ipotesi materialistiche, considera l’inapplicabilità di una comparazione tra eventuali fenomeni di risveglio intraoperatorio, causati da anestesia troppo superficiale, ed esperienze OBE.
Dai rari casi riportati nella letteratura medica si evince infatti che la fenomenologia del risveglio durante anestesia è in genere accompagnata da vissuti estremamente spiacevoli, vissuti come spaventosi (Osterman et al, 2001; Spitellie et al., 2002) e che i loro contenuti sono caratterizzati da memorie frammentarie, di natura primariamente uditiva e tattile. Queste caratteristiche differiscono notevolmente dal modo in cui l’esperienza OBE e la sua memoria sono vissute da coloro che hanno avuto una NDE (Greyson, 2010).
C’è poi una minoranza di casi di memorie di OBE, che anche se hanno coinvolto una grande minoranza di casi, hanno ottenuto l’attenzione dei teorici “in-brain“, la cui spiegazione riduzionistica ha creato alcune problematiche metodologiche (Trustman, Dubovsky, & Titley, 1977).
Si tratta di quei resoconti di OBE in cui la persona, una volta tornata cosciente, ricorda di avere assistito ad eventi che si svolgono in un luogo diverso da quello in cui si trova
il suo corpo fisico, accompagnato dalla certezza di essere stato realmente presente mentre ciò accadeva (Greyson, 2010).
Clark (1984) e Owens (1995), individuano 5 casi di questo tipo, dove vengono riportati dettagli sorprendentemente specifici del contesto e della situazione in cui tali eventi sono avvenuti.
In un altro studio di Ring & Cooper (1997, 1999) sono riportate le descrizioni di 31 casi di pazienti non vedenti, di cui all’incirca la metà ciechi fin dalla nascita, che durante un‘esperienza NDE ricordano di avere avuto esperienze di quasi-visione e di essere a conoscenza di eventi accaduti altrove mentre erano incoscienti.
Questi casi hanno rappresentato un‘ulteriore difficoltà aggiuntiva per gli scienziati di matrice riduzionistica, che come risposta hanno negato a priori il valore di questi resoconti, adducendo come motivazione che si tratta di testimonianze singole non corroborate da alcun altro testimone oculare.
Alcuni teorici “out-of -brain“ hanno quindi cercato conferma della veridicità di tali descrizioni, trovando in alcuni casi delle conferme da parte di persone in vita che erano state effettivamente presenti all’evento in questione (Clark, 1984; Hart, 1954; Ring & Lawrence, 1993).
In un celebre caso descritto da Van Lommel (2001) un paziente vittima di arresto cardiaco, tornato in vita, oltre a riconoscere immediatamente il volto dell’infermiera che lo aveva assistito, riporta in modo accurato e corretto tutti i dettagli relativi alla stanza di emergenza dove è stato messo e tutte le fasi della procedura di rianimazione cui è stato sottoposto. La versione del paziente viene inoltre completamente confermata in tutte le sue parti dall’infermiera (Van Lommel, 2001).
Come vediamo chiaramente, la quantità di studi che hanno indagato il fenomeno delle memorie nelle NDE e i ricordi durante le esperienze OBE sono numerosi e molto consistenti. A parere di Greyson (2010) quindi, le ipotesi che i teorici “in-brain“ hanno avanzato per dimostrare che le visioni delle NDE non sono né reali, né veridiche, venendo generate dalla mente allo stesso modo in cui sono generate le illusioni visive, non hanno fondatezza, e più spesso, di fronte al peso cumulativo delle numerose evidenze messe in luce dalle indagini sulle memorie nelle NDE, evidenziano la loro sostanziale inadeguatezza.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Il margine con la morte. Near-death experiences: prospettive a confronto
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Informazioni tesi
Autore: | Arianna Sacco |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2017-18 |
Università: | Università degli Studi di Torino |
Facoltà: | Psicologia |
Corso: | Scienze del Corpo e della Mente |
Relatore: | Giovanni Abbate Daga |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 218 |
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