La nuova disciplina fiscale delle fusioni societarie
Conclusioni
Le operazioni straordinarie possono rappresentare, nella vita societaria, un passaggio fisiologico attraverso il quale le società adattano le proprie strutture organizzative a condizioni mutate rispetto a quelle di origine.
La fusione di società è la compenetrazione in un’unica organizzazione sociale di più organizzazioni autonome; tale istituto ricopre notevolissimo rilievo all’interno della dinamica delle imprese, in quanto rappresenta uno dei mezzi tipici predisposti dal legislatore, atti a consentire a siffatte organizzazioni economiche di adeguare la struttura societaria tramite cui operano a condizioni mutate rispetto a quelle di origine al fine di perseguire in maniera ottimale i propri obiettivi strategici.
A mezzo della fusione, due o più organismi societari realizzano una loro piena integrazione in un unico complesso giuridico; gli elementi soggettivi ed oggettivi, i gruppi sociali e i patrimoni, che compongono, distinguono e caratterizzano i gruppi partecipanti, confluiscono e si perpetuano in una rinnovata e mutata struttura organizzativa, differenziata nelle dimensioni.
Dalla presente trattazione emerge con tutta evidenza la molteplicità di aspetti, di tematiche, nonché di problematiche che trovano la loro interconnessione nel tentativo di delineare un quadro organico e per quanto possibile completo delle materie qui analizzate.
Il lavoro è nato con il fine di rappresentare un punto d’incontro tra gli obblighi richiamati dalla normativa civilistica e da quella fiscale, gli aspetti prettamente economici insiti nell’operazione e le aspettative di benefici auspicati dagli organi gestori che procedono alle operazioni straordinarie.
In tal senso il segno distintivo degli interventi legislativi, della riforma fiscale e di quella societaria è stato quello della semplificazione e dell’aumento delle possibilità per le società e per i loro soci di optare per l’assetto organizzativo più confacente ai loro interessi.
Questo principio di fondo ha comportato l’eliminazione o l’attenuazione di divieti, tra l’altro non imposti dalla disciplina comunitaria, che nel sistema previgente erano espliciti o impliciti e, al contempo, ha permesso un tendenziale rafforzamento del grado di trasparenza delle società e in particolare di alcuni strumenti a disposizione delle minoranze.
Gli interventi dedicati alle «ristrutturazioni d’azienda» confermano che molte particolarità delle operazioni straordinarie sono venute meno, ed esse per certi versi si sono «normalizzate».
Dal nuovo impianto emerge con tutta evidenza come il diritto tributario abbia preso sempre più fortemente coscienza, negli ultimi anni, di una serie di «autonomie» tipiche delle problematiche fiscali rispetto a quelle civilistiche, di concetti come la continuità o la discontinuità dei valori fiscali, e dei rapporti della tassazione di un soggetto con la deduzione di un altro.
Ciononostante, dopo il venir meno dei regimi fiscali «speciali», le operazioni straordinarie restano pur sempre straordinarie, nel senso di essere estranee alla quotidiana gestione delle imprese e delle società. La consistenza di tali argomentazioni ha qui imposto, quindi, di considerare nel modo più armonico possibile queste operazioni nell’ambito del più generale sistema fiscale. Tuttavia da più parti è emersa la critica su come la riforma tributaria abbia inciso in minor misura sul regime delle fusioni di quanto fosse per certi versi auspicabile.
D’altro canto occorre tener ben presente che la direttiva CEE 23.7.1990, n. 434, dettata per le operazioni rilevanti da un punto di vista comunitario, ma imprescindibile punto di riferimento anche per le operazioni meramente interne e che consente ristretti margini di modifiche ai singoli Stati, era già stata ampiamente recepita dal legislatore italiano.
Nella inequivoca affermazione della natura non traslativa della fusione risiede dunque il fondamento di quello che viene comunemente considerato il principio cardine attorno al quale ruota tale operazione di riorganizzazione, il «principio della neutralità fiscale» il quale non rappresenta una «mera invenzione» della normativa tributaria, bensì costituisce la trasposizione sul piano tributario del principio civilistico secondo cui la fusione, in tutte le sue forme, comporta senza soluzione di continuità la prosecuzione dei vecchi organismi (società fuse o incorporate) nel più ampio contesto della società risultante dalla fusione o incorporante.
Neutralità significa dunque inidoneità a generare materia imponibile, a divenire presupposto di imponibilità tanto in capo alle società fuse o incorporate, quanto in capo alla società risultante dalla fusione o incorporante; alla luce di tale fondamento concettuale essa trova il proprio limite nel principio di continuità dei valori contabili delle società che vi partecipano.
La fusione costituisce evento neutrale ai fini fiscali, in quanto, e nei limiti in cui, i valori ai quali i beni sono iscritti presso la società fusa o incorporata vengono trasferiti senza variazione nel bilancio della società risultante dalla fusione o incorporante. Ferma restando la neutralità, eventuali presupposti di imponibilità posti in essere in occasione di essa, daranno luogo a tassazione, secondo le regole generali, analogamente a quanto avverrebbe se essi venissero posti in essere dalla incorporata prima della fusione o dall’incorporante successivamente all’effettuazione dell’operazione.
L’impressione generale che si ricava dalla nuova disciplina civile, contabile e tributaria, è la grande fiducia concessa al sistema e ai suoi attori con il riconoscimento di ampi spazi di manovra all’autonomia privata e statutaria, che però si restringono man mano che la società si apre al mercato del capitale di rischio per lasciare il campo a norme imperative più severe poste a garanzia degli investitori, dei creditori e delle minoranze sociali.
[…]
Le operazioni di riorganizzazione possono rappresentare un momento di transizione, attraverso il quale le società adattano le proprie strutture organizzative a condizioni mutate rispetto a quelle di origine; può accadere però che tali operazioni si prestino ad essere utilizzate per raggiungere uno scopo contrario a quello consentito dall'ordinamento giuridico.
E' agevole comprendere che per "abuso della libertà negoziale" si è inteso in questa sede indicare il tentativo di aggirare le norme tributarie attraverso l'uso di strumenti formalmente legali, violando così un divieto implicito dell'ordinamento, proprio perché teso a perseguire un risparmio d'imposta che il sistema "disapproverebbe" in quanto volto a stravolgere i principi che regolano la tassazione di una certa situazione giuridico - economica.
Proprio per la possibilità offerta dalle citate operazioni, di spostare materia imponibile, al fine di sottrarsi simulatamente agli obblighi ed ai divieti che scaturiscono dal verificarsi d'una fattispecie, non è un caso che il legislatore tributario abbia considerato le principali operazioni straordinarie potenzialmente elusive delle norme fiscali e all'uopo le abbia inserite nell'elenco dell'art. 37-bis del D.P.R. 600/73, dal cui disposto normativo si evince che ciò che qualifica la fattispecie elusiva è il:
(1) perseguimento di un vantaggio tributario; attraverso
(2) l'utilizzo di una condotta priva di "valide ragioni economiche";
(3) volta ad aggirare obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario.
L'introduzione della clausola antielusiva ha sollevato diversi problemi di ordine interpretativo ed applicativo. Molto si è scritto e molto si è discusso intorno alla nozione di "valide ragioni economiche”, termine che risulta di non facile individuazione proprio per il fatto che la formulazione rimanda ad elementi extra-giuridici, quali le ragioni economiche, che vanno individuate caso per caso facendo uso del procedimento interpretativo per accorpare le fattispecie concrete nelle fattispecie legali tipiche. Poiché nell'ordinamento tributario vige il principio di legalità non è consentito subordinare il giudizio di carattere elusivo di una fattispecie concreta unicamente in base al fatto che ricorrano le valide ragioni economiche.
Il carattere antielusivo di una norma va ricercato, si è detto, sotto il profilo teleologico - funzionale, ciò implica che quel determinato risparmio d'imposta non sia valutato come indebito dal legislatore medesimo.
Nella nozione legale di elusione delineata dall'art. 37-bis, l'elemento necessario e prevalente è proprio la natura indebita del vantaggio conseguito, mentre la insussistenza di valide ragioni economiche è la prova che il risultato disapprovato dal sistema è stato perseguito intenzionalmente dal soggetto passivo. Tale convinzione si basa sull'assunto che nell'ordinamento tributario vigente non vi sono norme che indicano un criterio interpretativo peculiare rispetto a quello civilistico perché fondato sul contenuto economico degli atti.
Si è giunti ad ammettere che il requisito delle "valide ragioni economiche" è dotato di valenza autonoma e ciò si riflette sul piano probatorio, nel senso che l'assenza delle valide ragioni economiche costituisce la prova necessaria e sufficiente dell'intenzione di strumentalizzare le forme negoziali tipiche, al fine di conseguire vantaggi disapprovati dall'ordinamento tributario.
Dalla lettura dei parei resi dal Comitato consultivo per l'applicazione delle norme antielusive, e dall’analisi delle sentenze riportate, si è tratta l'impressione che prevale la preoccupazione di indagare i profili economici delle operazioni e la loro contingente giustificazione sotto il profilo gestionale. Tuttavia l'esistenza o meno del solo aspetto economico dell'operazione non rientra nella ratio principale della norma, in quanto, il presupposto dell'art. 37-bis è quello di reprimere i comportamenti che, pur non violando espressamente alcuna norma tributaria, si pongono in contrasto con i principi sottostanti ad un determinato sistema normativo sfruttando le imperfezioni presenti nella disciplina positiva.
Giunti alla fine di questa breve e parziale trattazione, se si volesse tentare di individuare alcuni tratti caratteristici che emergono dalla prassi, in relazione all’utilizzo delle operazioni straordinarie in chiave elusiva, si potrebbe rilevare la «assenza di sicuri criteri per distinguere il fenomeno dell’elusione da quello del legittimo risparmio d’imposta».
[…]
L’affidarsi, come primo e prevalente criterio valutativo, all’assenza di altre valide ragioni economiche, deriva dal fatto che risulta questo il dato fenomenico che più ricorre e più colpisce, in sostanza, nella misura in cui denota la larghissima possibilità, in molti settori della fiscalità, di strutturare la tassazione in base alla creatività del contribuente piuttosto che in base all’effettiva capacità contributiva.
Come uscire allora dall’impasse e imboccare la strada che conduce ad individuare criteri quanto più oggettivi per formulare un giudizio di elusività di un’operazione?
È possibile ripensare il ruolo delle “valide ragioni economiche” in seno alla normativa antielusiva?
In merito alla funzione svolta dal requisito dell’apprezzabilità economica dell’operazione, vale la pena segnalare che molte sono state le discussioni sulla struttura e il contenuto della possibile nuova disposizione generale antielusiva, anche in relazione all’uso distorto che spesso si compie del requisito delle valide ragioni economiche.
L’esperienza applicativa suggerisce la ricerca di strumenti per ridimensionare il ruolo, quasi assorbente, di questo criterio. Da un lato, ciò potrebbe servire ad impedire un fenomeno sempre più ricorrente, ma sovente trascurato, che fa leva sul curioso ed artificioso “evoluzionismo” di cui alcuni soggetti passivi di imposta che riescono ad infarcire pratiche smaccatamente abusive con qualche apprezzabile utilità economica, soddisfacendo così il requisito delle “valide ragioni economiche” ed impedendo, di conseguenza, l’applicabilità della disposizione antielusiva. E ciò, in una prospettiva evolutiva, potrebbe portare a depotenziare il ruolo delle “valide ragioni economiche” e a trasformarle paradossalmente, in uno strumento nelle mani di contribuenti mossi da intenti elusivi.
[…]
Ma il ruolo delle “valide ragioni economiche” non è l’unico problema che dovrà essere affrontato in funzione della predisposizione di una norma generale antielusiva come emerge, d’altro canto, dal contenuto del disegno di legge già esistente in materia.
Il disegno di legge n. 1763, presentato il 4 ottobre 2006, ha previsto all’art. 3, lettera d), la «armonizzazione delle diverse forme di interpello, incluso quello internazionale, e definizione di una normativa generale antielusiva valevole per tutti i tributi erariali con la previsione della possibilità di disconoscere le condotte poste in essere per fini esclusivamente o prevalentemente fiscali, anche mediante l’eventuale modificazione delle disposizioni antielusive di cui all’art. 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni”.
Peculiarità della bozza di delega di cui sopra è che essa riecheggia chiaramente i termini più rilevanti nel dibattito oggi esistente in Italia e in Europa in materia di elusione e che possono essere così riassunti: il fine di eludere le imposte deve essere l’unica motivazione che ha mosso il contribuente oppure può essere semplicemente la motivazione prevalente?
[…]
La posta in gioco è molto alta, perché laddove la fattispecie elusiva fosse confezionata intorno al requisito del perseguimento di un fine esclusivo di elusione, si correrebbe il rischio di scrivere una disposizione che molto raramente troverebbe applicazione, attesa l’estrema difficoltà di provare l’esistenza di comportamenti dettati da finalità abusive esclusive.
Si è dunque cercato di mettere in rilievo che non è sufficiente ragionare solo in punto di validità delle ragioni economiche, in quanto nel nostro sistema positivo vige il principio di legalità nella formazione delle leggi, principio che è stato consacrato anche a livello costituzionale (art. 23 Cost.), per cui l'interprete non può discostarsi da ciò che è stato previsto e voluto dal legislatore.
[..]
In primo luogo, tanto nella definizione fornita dall’art. 10, quanto in quella fornita dall’art. 37-bis, l’elemento dell’assenza delle valide ragioni economiche è accompagnato da ulteriori elementi qualificatori: nell’art. 10, l’operazione deve avere altresì lo scopo elusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d’imposta; nell’art. 37-bis, l’operazione deve essere altresì diretta ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere risparmi d’imposta altrimenti indebiti.
È solo la compresenza di questi elementi a rendere inadeguato il regime ordinario della manovra realizzata, imponendo la rimozione, mediante la disciplina elusa, del risparmio d’imposta ottenuto dal contribuente. La riduzione dell’indagine sull’elusione all’indagine sulle valide ragioni economiche è pertanto da censurare, poiché produce un ampliamento dell’area di intervento delle clausole non solo ingiustificata sul piano letterale, ma altresì irragionevole su quello logico, nella misura in cui è idonea a coinvolgere anche situazioni in cui difetta quel conflitto tra lettera e spirito della legge che risulta essere tratto essenziale del fenomeno.
Benché anteposta, nelle due disposizioni citate, agli altri elementi costitutivi della nozione, l’assenza di valide ragioni economiche entra in gioco solo se sono ravvisabili i seguenti ulteriori elementi: lo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d’imposta da un lato, l’orientamento ad aggirare obblighi o divieto previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere risparmi d’imposta altrimenti indebiti, dall’altro.
[…]
I motivi e gli scopi rimandano all’itinerario effettivo che ha condotto ad una particolare scelta, nella specie a tenere un certo comportamento e ai sui obiettivi effettivi. Implicano, dunque, un’indagine sulle valutazioni in concreto eseguite dal soggetto al fine di deliberare il comportamento considerato. Le ragioni inviano invece a standard significativi giustificativi, generalmente accettati, da individuare alla stregua di determinati parametri, di un comportamento realizzatosi nel passato. Implicano, cioè, la formulazione di un giudizio in ordine alla corrispondenza o meno dei fatti a tali standard, e quindi alla ricorrenza o meno degli scopi per i quali è ragionevole che un determinato comportamento sia attuato: la ragionevolezza economica rinvia, in particolare, a qualsiasi giustificazione che faccia leva sul razionale impiego delle risorse disponibili.
A tal fine dovrebbe essere sufficiente quel rendimento prima delle imposte che ragionevolmente è in grado di incidere sull’adozione del comportamento considerato. Non sembra necessario, perciò, domandarsi se il contribuente avrebbe effettuato l’operazione così come strutturata, anche in assenza del previsto vantaggio tributario. In altre parole se le ragioni economiche abbiano, di per sé sole, l’attitudine a determinare la scelta per la condotta considerata.
Quanto, piuttosto, sarebbe opportuno chiedersi se il rendimento prima delle imposte ottenuto o ottenibile dal comportamento osservato, in termini attuali o prospettici di maggiori entrate o di minori uscite, sia sufficientemente significativo, anche in rapporto alle risorse impiegate, da fornire una ragionevole giustificazione dello stesso sul piano economico, in modo da assicurare un effettivo concorso di ragioni fiscali ed extrafiscali.
Questo brano è tratto dalla tesi:
La nuova disciplina fiscale delle fusioni societarie
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Informazioni tesi
Autore: | Antonella Cappetta |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2007-08 |
Università: | Università degli Studi di Siena |
Facoltà: | Economia |
Corso: | Scienze dell'economia |
Relatore: | Antonio marinello |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 220 |
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