Il problema della tortura in Italia
Caratteristiche della tortura nel mondo contemporaneo
In momenti di sbandamento e d’aberrazione abbiamo rivisto lo spettro della tortura legale levarsi ancora minaccioso, e gli abusi, approvati o tollerati, dei rappresentanti d’una mentitrice giustizia hanno fatto temere ai nostri giorni il suo ristabilimento, e con esso, lo sfacelo dell’intera civiltà giuridica moderna. La tortura non è quindi affatto un ricordo del passato, un istituto mostruoso proprio dei sistemi premoderni. Al contrario, essa è tornata ad essere, anche nei nostri civili ordinamenti, una pratica diffusa e niente affatto eccezionale, pur se stigmatizzata dal diritto internazionale come crimine contro l’umanità. La questione della tortura non è, quindi, un problema teorico, appartenente alla tradizione classica, settecentesca, illuministica del garantismo penale. Essa è bensì una questione aperta, drammaticamente, dalle innumerevoli e sempre più numerose denunce di sevizie su arrestati o detenuti, anche nei Paesi di democrazia avanzata. Quest’uso barbaro, inumano e sconcertante non appartiene a un passato ormai superato; concerne invece il presente, è tema dei nostri giorni.
Occorre allora, oggi, distinguere due tipi di torture, entrambi strutturali ma sotto più aspetti opposti. Il primo tipo di tortura è quello praticato in maniera occulta e con la consapevolezza della sua illegalità, nel chiuso delle camere di sicurezza. È una pratica poliziesca, purtroppo niente affatto eccezionale, che si consuma in segreto e la cui “cifra nera” va ben oltre le aperte denunce, di fatto scoraggiate dal rischio per i denuncianti di essere perseguiti, in mancanza di prove, per calunnia. Ciò che è eccezionale è la sua rivelazione. Si ricordino, in Italia, i pestaggi, le lesioni gravissime, le vessazioni e le mortificazioni inflitte a Genova, nel 2001, a giovani manifestanti illecitamente arrestati e ampiamente documentate grazie alla presenza di giornalisti e fotografi. C’è poi un secondo tipo di tortura che si è venuto affermando in questi anni e che è ancora più inquietante e disgustoso: la tortura non già come pratica isolata, occultata, consapevole della propria illiceità e perciò imprevista e imprevedibile, bensì come metodo strategico di inquisizione, di punizione e di intimidazione generale nei confronti del nemico o di chi è sospettato tale, adottato in esecuzione di esplicite direttive e perfino codificato in appositi manuali.
È il modello di tortura praticato nelle carceri americane di Guantanamo e di Abu Ghraib e in altre decine di carceri sparse in tutto il mondo: dalle mortificazioni morali e sessuali alla privazione del sonno, dall’applicazione di scosse elettriche fino alla morte per sevizie provocata a decine di arrestati. Il suo aspetto più turpe è proprio il suo carattere ufficiale, ostentato e programmato, quale strumento non solo di estorsione di informazioni ma anche, e forse soprattutto, di umiliazione delle persone e di diffusione del terrore. Solo così si spiegano le spaventose fotografie di prigionieri incappucciati, con le braccia aperte e i fili elettrici pendenti dalle mani, o trascinati al guinzaglio, o accatastati e ritratti nudi e terrorizzati davanti a cani ringhiosi mentre i loro aguzzini ridono, evidentemente sicuri dell’impunità o peggio della legittimità del loro operato.
Queste torture codificate fanno parte del nuovo diritto penale terroristico edificato dall’amministrazione statunitense e riservato ai cd. “nemici combattenti”; è il cd. “diritto penale del nemico”. La sua autolegittimazione è nell’identificarsi del nemico come male assoluto e, simmetricamente, di se stessi come bene parimente assoluto. Il suo scopo è seminare paura tra tutti coloro che, fondatamente o meno, appaiano sospettabili di connivenza con il terrorismo e, insieme, umiliare il nemico come non persona, fuori dal diritto, che non merita l’applicazione né delle garanzie ordinarie del corretto processo né di quelle previste per i prigionieri dal diritto umanitario di guerra. Naturalmente le torture non vengono chiamate con il loro nome. Le si chiama “abusi”, per non ammettere ufficialmente il crimine. Il principale fattore di queste atrocità proviene dalla loro impunità, che è l’altra faccia dell’ineffettività dei diritti umani e dello Stato di diritto, così negli ordinamenti interni come in quello internazionale. E l’impunità, a sua volta, consegue dalla più o meno tacita legittimazione politica e culturale di questi orrori che rischia di corrompere il senso comune, sia morale che giuridico, contemporaneo.
Nell’età contemporanea la tortura, oltre ad essere, quindi, una pratica ancora tragicamente diffusa, è diventata uno strumento di potere altamente sofisticato e professionalizzato. Lo sviluppo tecnologico ha contribuito a modificare e a perfezionare le modalità di utilizzo della tortura. L’analisi effettuata da Ruth Blakeley è particolarmente interessante. Secondo la studiosa, la tortura viene considerata come uno strumento funzionale ad assolvere uno dei principali compiti dello Stato: salvaguardare la sicurezza dei propri cittadini (security model), garantire stabilità al regime (stability model), o fornire legittimità a un dato gruppo di potere (legitimay model).
La garanzia di sicurezza, essendo un obiettivo proprio di ogni Stato, ha permesso di far apparire ammissibili pratiche violente e repressive anche quando usate da un paese democratico. Il modello della stabilità politica, intesa in termini di conservazione del potere, aiuta invece a comprendere l’agire di molti regimi autoritari. Questi ultimi infatti generalmente usano la tortura come uno strumento di terrore atto a bloccare, impedire e reprimere l’opposizione politica e la libertà di pensiero. Amnesty International ci dice al riguardo che questa è una pratica incoraggiata da alcuni governi e tollerata da altri in un numero sempre crescente di paesi. Un’ultima funzione che la tortura pare assolvere è fornire validità e autorità a una data élite. In tal senso, la pratica violenta si rivela un utile dispositivo per assicurare e fissare identità specifiche di un particolare gruppo di potere. Nella realtà fattuale la tortura, oltre a non aver mai garantito sicurezza o stabilità politica o legittimità, si è dimostrata pericolosamente controproducente rischiando di diffondere violenza incontrollata, di esasperare i conflitti esistenti, di avvalorare le cause dei nemici e di minare la legittimità statuale stessa.
La tortura è una pratica che non implica semplicemente l’uso di brutalità e crudeltà, ma è una vera e propria strategia che per attualizzarsi necessita di diversi presupposti: personale addestrato, strutture in cui infliggere le violenze, strumenti di tortura che vengono prodotti e commerciati, istituzioni compiacenti che permettano ai differenti soggetti coinvolti di operare senza eccessivi ostacoli. La pratica non avviene mai nel vuoto, non dipende semplicemente dal volere del singolo interrogante e non si esaurisce nella relazione tra persecutore e vittima, ma si inserisce in un ampio contesto istituzionale e sociale. La decisione di ricorrere alla tortura dipende nella quasi totalità dei casi dalla volontà della leadership delle forze armate che determina le procedure operative del personale militare e dalle intenzioni e obiettivi propri della classe politica al potere. Di conseguenza le responsabilità per i singoli atti di tortura risiedono principalmente nei vertici dell’establishment politico e militare. La questione investe inevitabilmente la società nel suo complesso, condizionando la vita, l’agire, il modo di pensare e le percezioni dei singoli. Nei regimi autoritari per esempio la tortura viene generalmente utilizzata per reprimere il dissenso politico e quindi per controllare e condurre l’agire della popolazione bloccandone la libertà di pensiero e di espressione. Nelle società aperte invece la tortura per essere usata deve essere celata, nascosta, avvolta da segreto oppure negata e trasformata in una tecnica necessaria al bene comune.
La tortura moderna è altamente professionalizzata e parcellizzata e pianificata da un apparato organizzato che prevede una precisa suddivisione dei compiti in modo da frammentare la responsabilità individuale. Al vertice di tale struttura organizzata vi è un ristretto gruppo di persone che impartisce comandi ad altri individui. La struttura statuale burocratica , in cui ogni lavoro ed attività viene parcellizzata tra tanti anonimi impiegati, in cui la responsabilità per l’agire individuale si diffonde e si sbiadisce, in cui la presenza di un capo che coordina e controlla ogni cosa consente ai singoli di non pensare alle ragioni dei propri incarichi, ha influenzato le modalità di implementazione della tortura favorendone il ricorso. Atti di violenza estrema infatti non vengono perpetrati da un solo persecutore che si assume la totale responsabilità delle proprie azioni, ma vengono pianificati da un gruppo complesso i cui membri condividono, e quindi frammentano, l’onere della propria missione: alcuni si occupano di prelevare la vittima, altri di gestire la detenzione, altri ancora di estorcere informazioni, e così via . Tal genere di organizzazione permette, da un lato, di migliorare l’efficacia della pratica e, dall’altro, di alleviare la sensazione di responsabilità e colpevolezza dei singoli carnefici.
Umiliare e degradare il soggetto, costringerlo materialmente in un luogo chiuso, privarlo della libertà e dei bisogni minimi, trasmettergli la sensazione di impotenza riguardo alla propria sorte sono gli elementi fondamentali della tortura. Alcune tecniche, come la sovra-stimolazione sensoriale o la deprivazione del sonno e del cibo o la costrizione ad assumere per lungo tempo posizioni stressanti e dolorose, sono infatti finalizzate ad indebolire il prigioniero, a renderlo vulnerabile sia fisicamente che intellettualmente, a renderlo malleabile e privo di volontà e di capacità di resistenza.
Oltre agli elementi materiali del luogo fisico circostante, a creare confusione, ambiguità e incertezza sono le regole illogiche, contraddittorie e continuamente mutevoli a cui i prigionieri sono soggetti, sono le parole e gli oggetti abilmente usati dal carnefice per ribaltare il significato razionale della realtà e così compromettere una percezione coerente da parte della vittima. In questa situazione il torturato viene continuamente posto di fronte a se stesso, alle proprie paure e incertezze, ai propri valori e viene obbligato a prendere decisioni impossibili, a sfidare dilemmi insolvibili.
La tortura è composta da due elementi essenziali: l’esperienza fisica della vittima, causa di dolore concreto, corporeo, “reale”; l’atto verbale, usato come tramite per compiere uno slittamento di responsabilità per le violenze compiute e per ribaltare il senso di ogni oggetto, di ogni azione, di ogni ruolo. Entrambi gli aspetti sono funzionali a distruggere l’universo, l’io, il pensiero del perseguitato, ad annullare le specificità individuali e culturali della vittima e così creare un vuoto che può essere colmato dalla volontà e dal potere del torturatore. La confessione in particolare porta a compimento, a livello mentale, il processo avviato con la tortura fisica.
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Il problema della tortura in Italia
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Informazioni tesi
Autore: | Maria Teresa Argentieri |
Tipo: | Tesi di Laurea Magistrale |
Anno: | 2014-15 |
Università: | Libera Univ. degli Studi Maria SS.Assunta-(LUMSA) di Roma |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Giurisprudenza |
Relatore: | Roberto Zannotti |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 143 |
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