Corpi urbani al margine: l'efficacia simbolica del portico
La città come oggetto semiotico
Partiamo da una definizione di Greimas, per il quale il testo-città è «un insieme di interrelazioni e interazioni tra soggetti e oggetti» (Greimas, 1976: 141). Una città non è semplicemente un agglomerato di elementi architettonico-paesaggistici (case, grattacieli, negozi, piazze, strade, giardini) così come ce la mostra la cartografia, né la sola presenza dell’uomo in un territorio basta ad identificare quel territorio come città: il carattere discriminante va cercato nelle specifiche «interrelazioni e interazioni» tra esseri e cose. Uno spazio è urbano perché è (o è stato, o sarà) abitato. Il concetto di abitare è quindi relazionale ed assume qui un’accezione molto vasta […].
Proprio perché non basata su proprietà statiche ma su relazioni dinamiche, oltre che su elementi profondamente eterogenei propri di ogni testo spaziale, la città appare un testo sfuggente, polisemico, instabile, in continuo mutamento. Ci sarebbe da chiedersi perché allora la semiotica si preoccupi di considerare un oggetto tanto complesso (rischiando di finire fuori strada), perché non si limiti ad indagare sui singoli oggetti topologici che lo compongono (la piazza, la strada, il condominio, il parco, ecc.). Per rispondere a queste domande ricorriamo ad un’illuminante analogia proposta da Greimas: così come l’inquadratura cinematografica ci mostra solo una parte dello spazio della scena ma lo spazio fuori quadro è ricostruibile dallo spettatore attraverso una serie di segni-indice (ad esempio i rumori off-screen) così, pur facendo esperienza di una singola porzione di una città, il visitatore riesce a farsi un’idea della città nel suo complesso, si costruisce cioè un “referente immaginario globale” (1976: 152). La città quindi esiste nella sua integrità perché come tale viene immaginata dall’uomo nella sua mente. Questa unità del piano del contenuto è sufficiente a garantire alla semiotica un terreno d’analisi.
Naturalmente sarà comunque necessaria un’analisi delle singole parti della città, a patto però che le si metta in relazione con questo referente immaginario globale nel quale queste parti sono inscritte e che da esso dipendono e traggono valore: «com’è evidente, ci troviamo di fronte in questo caso a un oggetto complesso e polisemico che non si può cogliere immediatamente se non in quanto effetto di senso globale; ed è altresì chiaro che la sua lettura è concepibile unicamente come disarticolazione di un tutto nelle sue parti costitutive» (ibidem: 132).
Ogni volta che un soggetto occupa uno spazio urbano si trova quindi a dover decifrare questo enorme testo complesso, riconoscendo in esso degli oggetti topologici utili al suo agire quotidiano: «abitare (passeggiare, fare la spesa, parcheggiare ecc.) è innanzitutto una prestazione cognitiva o semiotica, richiede di decifrare il testo urbano alla ricerca di segnali di pericolo, di possibilità, di proibizione, di permesso, di godimento, di convenienza, eccetera. Questa competenza è innanzitutto morfologica, consiste nel riconoscere forme e nell’attribuire loro un senso connesso alle pratiche del quotidiano” (Volli, 2005: 3). A questo proposito citiamo un passo de Le città invisibili di Italo Calvino, in cui l’autore ragiona sull’interpretazione della città attraverso un approccio strutturalista, che è lo stesso che deve assumere una semiotica urbana:
«L’uomo che viaggia e che non conosce ancora la città che lo aspetta lungo la strada, si domanda come sarà la reggia, la caserma, il mulino, il teatro, il bazar. In ogni città dell’impero ogni edificio è differente e disposto in un diverso ordine: ma appena il forestiero arriva alla città sconosciuta e getta lo sguardo in mezzo a quella pigna di pagode e abbaini e fienili, seguendo il ghirigoro di canali orti immondezzai, subito distingue quali sono i palazzi dei principi, quali i templi dei grandi sacerdoti, la locanda, la prigione, la suburra. Così – dice qualcuno – si conferma l’ipotesi che ogni uomo porta nella mente una città fatta soltanto di differenze, una città senza figure e senza forma, e le città particolari la riempiono.» (da Le città e i segni. 3.)
Ad aiutare il cittadino nell’interpretazione del testo urbano c’è anche una fitta rete di riferimenti appartenenti ad un metalinguaggio verbale, che ha delle sue regole ben precise: le strade hanno un nome, le case un numero, i luoghi più significativi hanno nomi indipendenti dal contesto e dipendenti dalla funzione (Palazzo reale, Castello, Duomo, ecc.) (Volli, 2005: 4).
Intendendo l’abitare come una rete di molteplici Programmi Narrativi che vedono protagonisti il cittadino e il suo territorio possiamo individuare, nell’articolazione di questi programmi, “enunciati di stato” e “enunciati del fare”. Gli enunciati di stato sono quelli in cui il cittadino percepisce lo spazio, congiungendosi con le qualità del mondo che lo circonda. Gli enunciati del fare sono invece quelli in cui il cittadino in qualche modo opera una trasformazione da uno stato ad un altro. Queste trasformazioni sono a loro volta fonte di significazione per altri cittadini. «Qualsiasi comportamento umano, fosse anche scavare una buca, ad esempio, è doppiamente significativo: per il soggetto del fare, prima, per lo spettatore di questo fare, poi. Tutte le pratiche sociali organizzate in programmi del fare portano in sé la significazione come progetto e come risultato, e reciprocamente: ogni trasformazione dello spazio può essere letta come significante» (Greimas, 1976:130). […]
Nella città-enunciato possiamo distinguere due tipi di fare che dipendono da due diverse istanze, una singola e una collettiva. L’istanza singola corrisponde al fare individuale, cioè il fare del singolo cittadino che fruisce della città e dei suoi servizi: prende l’autobus, utilizza la corrente elettrica, telefona, imbuca una lettera. L’istanza collettiva corrisponde invece ad un fare sociale che permette ai cittadini di fruire dei servizi: mette a disposizione gli autobus e costruisce le strade per la viabilità, monta la rete elettrica e telefonica, si occupa di recapitare la corrispondenza. È la compresenza di queste due istanze che fa differire il testo urbano da altri testi spaziali, perché nella città-enunciato accanto a dei ruoli individuali possiamo sempre riconoscere dei ruoli sociali, grazie ai quali gli individui partecipano al compimento degli scopi collettivi (Greimas, 1976: 142). I ruoli sociali non sono solo quelli rivestiti dalla pubblica amministrazione o dai suoi dipendenti: il comportamento di ogni semplice cittadino può essere aspettualizzato secondo la categoria epistemologica società/individuo. L’abitare urbano si contraddistingue proprio per il continuo relazionarsi dell’individuo con la società.
L’abitare urbano quindi è sempre un abitare con gli altri.
[…]
Il senso del testo urbano va ricercato più nel destinatario che nel destinatore: «come tutti i testi senza emittente unico, strutturalmente non vincolati al controllo autorale del progetto, il testo urbano dipende per il suo senso dalla percezione che se ne ha, dal consumo che se ne fa» (Volli, 2005:7,8). Conseguenza di questo totale abbandono del testo nelle mani dell’utente è la conflittualità del testo stesso. Ogni luogo urbano è un perenne campo di battaglia in cui si consuma una guerra silenziosa: quella per il senso. La conflittualità è sì permessa dalla mancanza di un Autore, ma è amplificata dal fatto che lo spazio urbano è uno spazio essenzialmente pubblico.
[…]
Le città italiane, proprio perché per secoli sono state un continuo crocevia di popoli e culture, rappresentano in maniera esemplare un’altra caratteristica del testo urbano: la stratificazione. La stratificazione a cui ci riferiamo non è quella che interessa gli archeologi o gli storici dell’arte (quella dei materiali o degli stili), ma è una stratificazione del senso, che deriva certamente in molti casi dalla prima ma che in altri si sviluppa autonomamente, senza stravolgimenti evidenti del piano dell’espressione, anche in un arco temporale abbastanza breve. Si va così dai templi romani trasformati in hiese cristiane, ai palazzi costruiti dal regime fascista occupati ora dagli uffici pubblici dello Stato Repubblicano, alle residenze dei boss della camorra che diventano luoghi ricreativi per i giovani. Scontro tra culture, tra poteri, tra ideologie, ma in definitiva scontro tra strategie diverse di significazione. Perfino quando si sceglie la pratica della conservazione di un’opera del passato, per farne un monumento o semplicemente per preservarne l’integrità, non si riesce ad evitarne un riuso semantico, una ri-scrittura del senso.
Proprio perché scenario e specchio di questi continui conflitti, sia lungo l’asse diacronico che lungo quello sincronico, il testo urbano appare fortemente contraddittorio, poiché presenta al suo interno enunciati di stato e del fare semanticamente opposti. Volendo fare un paragone con i regimi di narrazione, sicuramente il testo urbano è classificabile come una narrazione debole, in cui il sistema assiologico non è netto e la valorizzazione timica (secondo la categoria euforico/disforico) è di volta in volta applicata in maniera differente.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Corpi urbani al margine: l'efficacia simbolica del portico
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Informazioni tesi
Autore: | Matteo Pota |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2007-08 |
Università: | Università degli Studi di Salerno |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Scienze della comunicazione |
Relatore: | Anna Cicalese |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 53 |
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