La supplenza del Presidente della Repubblica nell'ordinamento costituzionale italiano
La destituzione, la decadenza e le altre cause di inabilità permanente
L'art. 15 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n.1 afferma che "quando il Presidente della Repubblica è giudicato per i reati di attentato alla Costituzione e di alto tradimento, è in potere della Corte costituzionale determinare, in caso di condanna, le sanzioni penali e le sanzioni costituzionali adeguate al reato commesso".
La condanna pronunciata dalla Corte costituzionale per uno dei reati contemplati dall'art. 90 della Costituzione non è espressamente considerata dalla Carta repubblicana come ragione di cessazione dall'ufficio presidenziale, ma non sembra dubbio che questa debba esserne la conseguenza.
La sentenza di condanna, infatti, accerta che il Presidente ha violato il giuramento di fedeltà alla Repubblica e quest'ultimo impone un complesso di doveri la cui inosservanza, giudizialmente accertata, pone in essere una causa risolutiva della titolarità dell'ufficio, ossia una causa di decadenza.
Questa decadenza opera per la forza stessa della condanna e non costituisce una delle sanzioni costituzionali che l'art. 15 della legge costituzionale n. 1 del 1953 affida al potere discrezionale della Corte costituzionale.
Benché la normativa costituzionale sia estremamente generica su questo punto, la dottrina è complessivamente concorde nel ritenere che l'irrogazione della sanzione costituzionale consistente nella destituzione non sia un potere discrezionale della Corte costituzionale, ma la conseguenza automatica dell'accertamento della consapevolezza del Capo dello Stato.
Per quanto riguarda, invece, il tipo di sanzioni che la Corte costituzionale deve irrogare a seguito di una sentenza di condanna, la dottrina ritiene, nel silenzio della norma costituzionale, che, per reati così gravi come l'alto tradimento e l'attentato alla Costituzione, le sanzioni possano andare dalla sospensione dalla carica per un periodo più o meno lungo fino alla rimozione definitiva dalla carica. In pratica, tuttavia, appare politicamente assurdo che possa rimanere in carica, sia pure sospeso nelle sue funzioni, un Presidente della Repubblica condannato per alto tradimento e attentato alla Costituzione, ed ancor più che possa riassumere le proprie funzioni al termine del periodo di sospensione inflittogli dalla Corte.
Se il Presidente della Repubblica incriminato e condannato non ha già sentito l'elementare dovere di dimettersi dopo l'accusa, se addirittura non si è dimesso dopo la condanna, si presenterebbe la paradossale situazione di un Capo dello Stato che esercita le sue funzioni dopo che è stato condannato per alto tradimento e attentato alla Costituzione, cioè proprio per aver tradito le sue funzioni e i suoi compiti istituzionali.
Perciò, la dottrina prevalente non ha alcun dubbio sul fatto che le sanzioni costituzionali adeguate al fatto comprendano, come minimo, la destituzione dalla carica.
Oltre a questa sanzione, potrebbero essere inflitte al Capo dello Stato riconosciuto colpevole per i reati previsti dall'art. 90 della Costituzione altre pene accessorie alla sentenza di condanna, vale a dire l'esclusione perpetua dai pubblici uffici e, quindi, da altre cariche costituzionali, nonché la perdita dei diritti civili e politici o dei privilegi connessi al fatto di aver rivestito la carica di Presidente della Repubblica.
Naturalmente, in seguito alla destituzione decisa dalla Corte costituzionale si opera un'immediata vacanza della carica di Capo dello Stato, la quale fa scattare il meccanismo di sostituzione dello stesso previsto dall'art. 86, secondo comma, della Costituzione.
Una parte della dottrina ipotizza che il Capo dello Stato possa decadere automaticamente dalla sua carica a causa della perdita dei requisiti di eleggibilità e ciò avverrebbe per incapacità assoluta (sia civile che politica) per condanna implicante come pena accessoria l'interdizione dai pubblici uffici e per perdita della cittadinanza.
In realtà, altri autori sostengono che poche di queste ipotesi possano trovare applicazione riguardo il Presidente della Repubblica.
In primo luogo, si fa notare che l'incapacità assoluta, derivante da una causa inabilitante o comportante un'incapacità di intendere e di volere, rientri già di per sé nel concetto di impedimento.
Per quanto concerne, invece, la condanna comportante interdizione dai pubblici uffici e la perdita della cittadinanza, si può solo ipotizzare in astratto la loro ricorrenza, anche se è ben difficile che ricorrano effettivamente.
Si può solo tentare di ipotizzare, in concreto, il caso di un Presidente della Repubblica che rinunci espressamente alla cittadinanza. Infatti, se è pur verosimile che il Capo dello Stato intenzionato a rinunciare alla cittadinanza faccia precedere le dimissioni a tale decisione, tuttavia potrebbe ipotizzarsi in astratto la decadenza automatica nel caso in cui il Presidente rinunci alla cittadinanza e non dichiari prima o contestualmente di dimettersi. [...]
Questo brano è tratto dalla tesi:
La supplenza del Presidente della Repubblica nell'ordinamento costituzionale italiano
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Informazioni tesi
Autore: | Fabrizio Vitali |
Tipo: | Tesi di Laurea |
Anno: | 2003-04 |
Università: | Università degli Studi di Pisa |
Facoltà: | Scienze Politiche |
Corso: | Scienze Politiche |
Relatore: | Rino Casella |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 159 |
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