La difficoltà di ricostruzione nei contesti di conflitto: il caso della Missione Italiana Antica Babilonia in Iraq
Forze speciali per la ricostruzione civile in aree di conflitto
Le forze di mantenimento della pace, o di ri-costruzione di essa, più conosciute (come già accennato nel primo capitolo) sono probabilmente le forza di peacekeeping delle Nazioni Unite. Tali forze vengono suddivise dagli studiosi in due varianti: peacekeeping militare di “prima generazione” e peacekeeping multifunzionale, o di “seconda generazione”.
Il peacekeeping militare, il modello classico, consiste nell’interposizione delle truppe ONU fra le due parti in conflitto. Esse sono disposte lungo una linea di cessate il fuoco, che delimita il territorio controllato da due entità in lotta. Tali missioni non erano originariamente previste nella Carta e il Consiglio di Sicurezza nell’istituirle si riferiva genericamente al Capitolo VI (soluzione pacifica delle controversie). Nei rapporti con le parti in conflitto, le truppe ONU sono tenute a mantenere imparzialità; possono ricorrere alla violenza solo per autodifesa o nel caso in cui venga loro impedito di espletare il proprio mandato. Il consenso delle parti, l’imparzialità
dell’intervento ONU e la non imposizione dall’esterno di una soluzione del conflitto, sono i tre pilastri fondamentali del peacekeeping tradizionale (Dobbie 1994, cit. in Arielli e Scotto 2003, 141). Sin dalla loro creazione, le forze militari di peacekeeping hanno svolto ben limitate funzioni con il dispiegamento di forze-cuscinetto tra le parti in conflitto, la sorveglianza lungo le linee del “cessate il fuoco” e l’osservazione di un’eventuale tregua o armistizio concordato fra le parti. Dal punto di vista della dinamica conflittuale, il dispiegamento delle truppe ONU costituisce un freno all’escalation di violenza, il conflitto non viene così né risolto, né trasformato. Questo tipo di peacekeeping può prendere solo misure di tipo dissociativo, ovvero la separazione delle parti in conflitto (Galtung 1976, cit. in Arielli e Scotto 2003, 141). Oltre alla semplice interposizione che abbiamo visto però, i contingenti ONU, sono chiamati a confrontarsi con innumerevoli problemi riguardanti i rapporti militari e civili, problemi che un semplice freno alla violenza non può risolvere. Così negli anni ‘80, anni in cui le Nazioni Unite hanno vissuto un periodo di enorme espansione della loro attività, al dispiegamento di truppe di peacekeeping, si è accompagnato l’utilizzo di un numero considerevole di personale non militare. Grazie infatti al coinvolgimento delle Nazioni Unite in diversi conflitti interni (in Africa del Sud, in Centro America, in Cambogia), si palesò la necessità di affiancare vere e proprie strategie di ricostruzione del tessuto sociale, tramite il rimpatrio e la protezione di rifugiati, il monitoraggio dei diritti umani, la smobilitazione e il reinserimento nella società di ex combattenti e l’organizzazione e supervisione dei processi elettorali, come nel caso della Cambogia. E proprio per quest’ultima e la Namibia, dove la Nazioni Unite assunsero rilevanti compiti amministrativi, di ricostruzione istituzionale e gestione politica della fase di transizioni, si parlò di peacekeeping multifunzionali (Arielli e Scotto 2003, 142-144). Proprio per tutte queste caratteristiche, il peacekeeping di “seconda generazione” riveste particolare interesse e importanza, perché la sua componente civile permette di essere una risorse senza precedenti nella ricostruzione sociale, economica e politica dei Paesi affetti da conflitto. Questo tipo di peacekeeping, inoltre, è inserito fra le misure associative, ossia misure che hanno lo scopo della ricostruzione dei legami sociali tra le parti in conflitto.
Oltre al peacekeeping militare tradizionale, un altro tipo di intervento dissociativo sono le forme di interposizione non violenta e di accompagnamento internazionale non armato. La prima consiste nell’idea di formare un “muro umano” per impedire a fazioni in guerra di proseguire i combattimenti, un’idea che ricorre lungo tutto il XX secolo e si è concretizzata in diversi progetti di interposizione, all’interno di questi si
colloca il progetto di creare corpi civili di pace, o i cosiddetti “caschi bianchi”; fanno parte dell’interposizione non violenta anche le Brigate internazionali della pace (Peace Brigades International: PBI), create nel 1981; il loro metodo è quello dell’accompagnamento dissuasivo, ovvero assicurare una presenza fisica durante le riunioni e le manifestazioni dei movimenti e fornire scorta di protezione ai gruppi sociali minacciati a motivo del loro impegno nella lotta alla giustizia, compito simile a quello dell’accompagnamento internazionale non armato (Muller 1999, 110-111). Quest’ultimo, infatti, viene effettuato da ONG con l’obiettivo di tutelare i diritti umani fondamentali di persone singole in pericolo a causa del loro impegno per la trasformazione sociale, garantendo in tal modo alla parte più debole uno spazio di azione. Questo tipo di azione si inserisce in contesti laddove, alla dimensione della violenza diretta, va aggiunta quella della violenza strutturale delle istituzioni, che tengono sotto pressione la popolazione. Come già sostenuto, però, gli interventi di tipo dissociativo non sono in grado di risolvere le contraddizioni strutturali alla base dei conflitti, ma possono fornire un contributo importante ai processi di pace, aprendo spazi fondamentali per il lavoro. Diversamente, le misure di tipo associativo consistono proprio nella ricostruzione del Paese e nel trovare soluzioni stabili e durature.
Oltre al peacekeeping multifunzionale già trattato, rientrano in questa categoria anche l’approccio di peacemaking e quello di peacebuilding. Il primo riguarda un’azione di negoziato tramite le parti esterne. Il processo negoziale avviene a livello di vertice, che tenta di conciliare posizioni incompatibili e che in caso di successo si conclude con un accordo tra le parti. È un processo di mediazione, che ha buone probabilità di riuscita in situazioni in cui gli sforzi degli attori per terminare il conflitto sono risultati vani, la disponibilità della parti in conflitto ad accettare perdite ulteriori è bassa e se le parti sono pronte ad iniziare un dialogo diretto. Studi sulla mediazione nei conflitti internazionali, nell’arco di tempo dal 1945 al 1990, hanno messo in evidenza diverse condizioni che facilitano il processo, come ad esempio l’omogeneità etnica e la politica interna, un relativo equilibrio in termini di potere tra le parti e la bassa intensità del conflitto. Esempio di peacemaking è il lavoro diplomatico compiuto nel 1979 da Jimmy Carter, allora Presidente degli Stati Uniti, per giungere ad un accordo di pace tra Egitto e Israele. Le Nazioni Unite, in quanto organizzazione universale con il compito di tutelare la pace, hanno intrapreso spesso iniziative di risoluzione dei conflitti, sotto forma di mediazione e di conciliazione. L’importanza dei processi di mediazione coinvolge, inoltre, anche i rappresentanti di Stati: a livello statistico, però,
le superpotenze non hanno un particolare successo nella mediazione, cosa che invece accade per i rappresentanti dei piccoli Paesi, che sembrano essere assai più efficaci (Bercovitch 1995, cit. in Arielli e Scotto 2003, 178).
Il processo di peacebuilding, invece, significa letteralmente “costruzione della pace”, ed è un processo che porta a risultati nel medio periodo (alcuni mesi o alcuni anni) e coinvolge l’intera struttura sociale delle parti in conflitto. Non è un’attività per la gestione del conflitto, ma un modalità per attutirlo, e ricercare una soluzione stabile e sostenibile, capace di costruire una pace duratura. È importante capire che, secondo la logica del peacebuilding, nei processi di costruzione della pace ogni articolazione sociale e ogni livello della leadership, possiede un potenziale di trasformazione costruttiva del conflitto. Al vertice delle leadership di un Paese si trova la dirigenza politico-militare, dotata di grande visibilità e in genere con posizioni molto rigide sugli scopi e le interpretazioni del conflitto. C’è poi la leadership intermedia, si può trattare di intellettuali o responsabili di settori chiave, come l’agricoltura, la sanità o l’educazione. Infine la leadership di base, che condivide con la popolazione l’esperienza quotidiana del conflitto. Le potenzialità maggiori di trasformazione del conflitto, risiedono nel secondo livello di leadership. Le misure di peacebuilding o di post-conflict peacebuilding (nel caso vengano prese al termine dei conflitti), si raggruppano in quattro categorie:
- misure di natura militare: smobilitazione e disarmo dei soldati, sminamento del terreno e riforma delle forze armate
- misure di natura politica e giudiziaria: osservazione e tutela dei diritti umani, punizione dei colpevoli di violazione dei diritti umani, organizzazione, esecuzione e monitoraggio di elezioni
- misure di natura economica: distribuzione di aiuti umanitari durante la fase acuta del conflitto, ricostruzione delle istituzioni economiche a medio e lungo termine, redistribuzione delle risorse
- misure di natura sociale: rimpatrio e reintegrazione dei rifugiati, reintegrazione dei soldati nella vita civile, riavvicinamento dei gruppi sociali divisi.
Esistono naturalmente delle interazione fra i vari campi, ad esempio la creazione di un ambiente sicuro e lo sminamento sono condizioni necessarie per il rimpatrio dei rifugiati.
Oltre alle forze che abbiamo appena visto, figlie dell’intervento delle Nazioni Unite, troviamo anche forze minori impegnate nella ricostruzione della pace, come le
Organizzazione Non Governative o lo stesso Ministero per gli Affari Esteri Italiano. In generale quando si tratta di interventi civili volti alla ricostruzione dei Paesi colpiti da conflitti, si tengono a mente alcune linee comuni di progettualità. Ricostruire condizioni vivibili per la popolazione e le vittime dei conflitti richiede una grande capacità organizzativa e di coordinamento delle forze presenti sul posto. Gli studi sull’argomento sono tutti concordi nel porre enfasi sul primo punto: un vero coordinamento operativo per raggiungere un obiettivo comune. La linea politica delle forze straniere e locali deve essere unitaria, così come la supervisione generale su tutte le attività, pena la perdita di credibilità. La cornice di sicurezza, che fa in modo che gli attori della cooperazione e gli operatori umanitari possano agire e assicura protezione alla popolazione va rinforzata e accettata da tutti coloro coinvolti nella ricostruzione (Trojano 2007, 1-2). Le comunicazioni dovranno essere progettate in base ai rischi e alle difficoltà della zona in cui si opera e tutti i risultati conseguiti dovranno poi essere verificabili e da questi, come già detto in precedenza, passare ad una vera e propria ricostruzione e rinsaldamento del tessuto sociale.
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La difficoltà di ricostruzione nei contesti di conflitto: il caso della Missione Italiana Antica Babilonia in Iraq
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Informazioni tesi
Autore: | Martina Pieri |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2010-11 |
Università: | Università degli Studi di Bologna |
Facoltà: | Scienze Politiche |
Corso: | Scienze sociali per la cooperazione, lo sviluppo e la pace |
Relatore: | Vando Borghi |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 64 |
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