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''Spesso il male di vivere ho incontrato''. Prospettive sulla depressione a confronto

La patologia depressiva tra tristezza e mancanza di sentimento

Possiamo distinguere due posizioni fondamentali nel guardare alla depressione: concepita da un lato secondo un continuum tra normalità e patologia, dall’altro come condizione costitutivamente differente da quella di normalità.
Come esponenti della prima posizione possiamo considerare l’interpretazione del DSM e di Blatt, sebbene quest’ultimo si sia per altri versi distanziato dalla concezione sintomatica della depressione proposta dal DSM.
Nel DSM il confine tra l’elemento fisiologico e il sintomo viene marcato dall’intensità e dalla durata ed è descritto come «un abbassamento del tono dell’umore, uno stato di tristezza intensa che causa una diminuzione dell’iniziativa e del livello di partecipazione all’ambiente» (La Barbera, D. & Varia, S., 2003, p. 34).
Blatt (2004) su questa linea, prendendo in considerazione Bibring e Fenichel, si riferisce alla depressione come stato affettivo di base, presente nelle condizioni di normalità, che varia in senso patologico per intensità. Questo poiché egli lega le esperienze di vita comuni alla possibilità dell’insorgere della depressione.
La posizione fenomenologica sulla depressione, che ritroviamo in Binswanger, Tellenbach, Minkowski, Stanghellini e Rossi Monti, si distacca 44
dall’interpretazione del DSM-IV che fa una distinzione quantitativa dei disturbi dell’umore, come dal continuum proposto da Blatt.
Binswanger (1977) intende la melanconia come « “allentamento dei fili” dei momenti intenzionali strutturanti l’oggettività temporale» (p. 34).
La trama delle dimensioni temporali subisce delle interferenze che non riguardano quindi il passato o il futuro in sé, ma le loro connessioni. Infatti «è compromessa la continuità o consequenzialità dell’esperienza, con ciò l’attuabilità del corso vitale» (p. 23).
Binswanger parla di una «perdita, da parte dell’esperienza, di possibilità temporali intenzionali o trascendentali. Si tratta pertanto […] di una perdita delle possibilità della continuità dell’esperienza naturale» (p. 51).
L’oggettività temporale, intesa come esperienza naturale, nella melanconia subisce quindi un’alterazione deficitaria.
Per questo secondo Binswanger la melanconia, come la mania e la psicosi, difficilmente sono « “comprensibili empaticamente”» (p.34).
Ciò con cui è possibile empatizzare sono invece le singole e specifiche manifestazioni della melancolia, come le autoaccuse, gli autorimproveri, ma non con la melanconia in se stessa.
La melanconia viene definita anche come: «Deviazione dalle condizioni costitutive dell’esperienza naturale» (p. 61), e l’angoscia attraverso cui si manifesta è distinta dalla crisi esistenziale.
Borgna (2011), riprendendo Tellenbach e Minkowski, sostiene che anche questi autori distinguono una condizione di normalità dalla depressione. Da una parte Tellenbach parla della sofferenza depressiva come di una sofferenza «alterata, sfigurata ed estranea» (p. 52) rispetto a quella comune. Dall’altro per Minkoswki: «la sofferenza depressiva è qualcosa di magmatico e di immobile» (ibidem) con i caratteri anche qui dell’estraneità ma anche della rigidezza.
Mentre Rossi Monti e Stanghellini (Stanghellini, 2006; Stanghellini & Rossi Monti, 2009), in particolare, per comprendere la depressione si allontanano dalla categoria della tristezza che accomuna la condizione umana, e definiscono una differenza non più quantitativa, “di livello”, ma piuttosto qualitativa, che pone un divario tra la normalità e la patologia.
Stanghellini (2006) in questo è molto critico:

Una definizione dell’umore depresso basata meramente su di un criterio quantitativo non è di aiuto nella distinzione tra condizioni pre-cliniche, sub-cliniche e cliniche. E’ legittimo sospettare che questa concettualizzazione di un continuum tra normalità e patologia nello spettro dei disturbi dell’umore sia stata inventata a uso e consumo di una medicalizzazione di condizioni non-cliniche, piuttosto che per contribuire alla comprensione della condizione depressiva in quanto variante abnorme della conditio humana (p. 164).

Si riallaccia così ad una questione che riprenderemo nell’ultimo capitolo.
Stanghellini e Rossi Monti (2006, 2009) parlano della depressione maggiore come melancolia per distinguerla da «quadri assai eterogenei che fanno dalla semplice tristezza alla profonda apatia» (2009, p. 271), sottolineando come nella tristezza l’io diventa la sua tristezza, identificandosi con essa. Nella melancolia, invece, l’io è separato dalla sua sofferenza, egli è «per così dire a fianco della sua sofferenza, non soffre con essa, ma piuttosto soffre per essa» (ibidem).
Se la tristezza è un sentimento comune, non lo è il “sentimento di mancanza di sentimento” che caratterizza il melancolico.
Varia e La Barbera (2003) inseriscono tra i disturbi dell’affettività anche il sentimento dell’assenza di sentimento o sentimento di anaffettività, e lo descrivono come «svuotamento», «impoverimento della vita affettiva ed il venir meno della spinta verso persone e situazioni» (p. 74).
Stanghellini (2006) parla di questo vissuto di perdita del sentimento come un vissuto di depersonalizzazione, diverso dalla tristezza. Citando Schulte: «Colui che ancora può essere triste non è veramente melanconico» (p. 166).
Il senso di sofferenza, di angoscia, provato dal melanconico non è per le emozioni di sofferenza, ma proprio per il fatto di non provare emozioni, nemmeno le più dolorose. «E’ di questa incapacità di soffrire in prima persona che il melancolico si rammarica e si incolpa» (Stanghellini & Rossi Monti, 2009, p. 271).
Per questo Stanghellini la chiama depersonalizzazione etica. La persona di questo si autorimprovera, si sente in colpa, valutando da un punto di vista etico questa sua mancanza. «La sua esperienza è permeata dal giudizio su ciò che è giusto o sbagliato, autentico o in autentico, sincero o bugiardo, o dal dubbio angoscioso riguardo a quale dei due sé – quello attuale o quello precedente – sia quello vero e senza finzioni» (Stanghellini, 2006, pp. 167-168).
L’autore ritorna anche alla distinzione tra affetto e umore, vista nel capitolo precedente. La melancolia è un’alterazione dell’umore, della Stimmung, che a differenza dei sentimenti, comporta «un tratto di passività e di astoricità» (p. 167), in quanto gli umori sono immotivati, indefiniti, non-intenzionali.
«Gli umori sono vissuti come immotivati, mentre gli affetti hanno per la persona che li prova una loro ragion d’essere, una spiegazione. I primi, oltre a essere vissuti come immotivati, sono non focalizzati su un singolo oggetto, dunque non-intenzionali, sono più inarticolati e caratteristicamente si prolungano nel tempo» (Stanghellini & Rossi Monti, 2009, p. 266). [...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

''Spesso il male di vivere ho incontrato''. Prospettive sulla depressione a confronto

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Informazioni tesi

  Autore: Simona Arcidiacono
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2011-12
  Università: Università degli Studi di Palermo
  Facoltà: Scienze della Formazione
  Corso: Psicologia Clinica
  Relatore: Giorgio Falgares
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 116

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