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Le marche nel Pallone: La rappresentazione pubblicitaria del Calcio

Il razzismo nel calcio

“Il calcio nasce razzista. Nasce, cioè, come sport riservato ad alcuni e proibito ad altri. Dove gli alcuni e gli altri sono distinti e contrapposti, anche in base a precise categorie proprie del razzismo biologico dell’epoca.” (Valeri)
Con queste parole, il sociologo Mauro Valeri introduce nel suo libro una delle tematiche più radicate e combattute nella cultura calcistica mondiale.
Il fatto che oggi le razze non esistano, credo sia accettato da tutti coloro che affrontano studi nell’ambito delle scienze umane, sociologi o antropologi che siano. Siamo, usando le terminologie di Barba, “tutti uguali e tutti diversi”: siamo fatti di idee, passioni, progetti, di qualche pregio e di molti difetti. Viviamo esperienze che lasciano un segno indelebile nella nostra vita con persone di religione, colore della pelle differenti e capita di non sopportare per un minuto il nostro vicino di casa. Possiamo ritenerci della stessa razza, ricordando quanto un colore nero di pelle o i capelli crespi non siano in grado di condizionare le proprie strutture psicologiche.
Tuttavia, sembra utopico cancellare dai propri vocabolari il termine razza e sperare, al contempo, che venga a debellarsi il razzismo. Si ha la sensazione di essere immersi in un alone globale di razzismo senza razza, che trova sempre più sfogo nel contesto calcistico.
Nella storia del calcio italiano questo concetto di razzismo biologico fu da sempre ravvisabile, per quanto le origini inglesi del football non fecero altro che escludere per diversi anni noi italiani. Nel 1908 la Federazione Italiana Giuoco Calcio decise che i club iscritti ai campionati avrebbero dovuto ingaggiare esclusivamente calciatori italiani. La competizione calcistica senza stranieri fu imposta anche dallo stesso Fascismo, il quale per mezzo della Carta di Viareggio nel 1926, vietò senza margini di discussione, la presenza di giocatori stranieri. La successiva apertura da parte del governo fascista all’inserimento di oriundi, soggiogando la regola dell’italianità assoluta, fu determinata dalla volontà ed il dovere di vincere per evidenziare la superiorità etnica e razziale della nazione, rivendicando con essi un’appartenenza comune alla razza latina, basata sulla discendenza di sangue.
Tuttavia, fu il rifiuto, da parte degli stessi giocatori meticci, di arruolarsi nell’esercito italiano allo scoppio della guerra, interpretato come un tradimento razziale, oltre che sportivo, ad indurre lo stato a rivendicare, nella società come nel calcio, un razzismo istituzionale e di propaganda, in cui ai calciatori venne assegnato un ruolo di ambasciatori del fascismo, trasformando uno sport paladino della mescolanza etnica e del rispetto verso le diversità, in un vero e proprio strumento di discriminazione.
Quello a cui stiamo assistendo oggi è il sorgere in tutto il Mondo di un Neorazzismo, con una connotazione prevalentemente politica, alimentato soprattutto da due fenomeni complessi e connessi ad un cambiamento di relazioni etniche tra individui. Il primo è l’apertura delle frontiere calcistiche, che orienta i dirigenti di grandi club oltre il proprio confine territoriale alla ricerca di grandi campioni da inserire nella rosa della società, creando squadre multietniche e multirazziali (ne è un esempio lampante l’Inter). Il secondo fenomeno è il flusso di migranti stranieri in Italia e all’estero, che ha coinvolto soprattutto il continente Europeo, aprendo le frontiere sociali ad una vera e propria globalizzazione mondiale e trasformando conseguentemente diversi contesti territoriali in senso multietnico e multirazziale.
I due fattori in questione hanno portato alla luce un
calcio dai risvolti positivi, esempio di convivenza e mescolanza, scatenando tuttavia un timore da parte di razzisti di dover tifare per il diverso, per l’Altro, contro il quale rivolgono pregiudizi diffamatori e denigratori, nel tentativo di poterli cacciare dal proprio paese.
Siamo di fronte al levarsi di un duplice razzismo: indiretto (di carattere denigratorio, il cui obiettivo è rivolgere al giocatore avversario qualsiasi tipologia di insulto, sfruttando stereotipi razzisti di cui non sempre se ne comprende il reale significato) e diretto, rivolto direttamente al giocatore che ha caratteri biologici differenti. In casi estremi, pur di mantenere una purezza etnica e razziale, la violenza psicologica attuata dai tifosi si spinge fino ad una minaccia nei confronti del club di appartenenza nel caso stia per ingaggiare un calciatore da loro definito diverso.
E’ un razzismo che distrugge ciò che di buono ha da insegnare questo sport alle generazioni, un fenomeno troppo spesso dovuto ad indifferenze e connivenze, frutti di una visione sin troppo semplicistica dello stadio, ritenuto un luogo in cui tutto è permesso, in cui vige la libertà di sfogare tutte le tensioni accumulate lungo l’arco dell’intera settimana con comportamenti che in altri luoghi ed in altri contesti sarebbero immancabilmente esclusi e condannati. E’ l’ingenua convinzione che si tratti di un fenomeno contenibile all’interno della curva di uno stadio o la sfrontatezza nel comunicare al mondo intero quanto non sia così pericoloso come l’opinione pubblica ed i media vogliono farci credere, che di fatto offre ai militanti neorazzisti l’impulso a continuare lungo questa strada, sfruttando lo stadio come luogo di propaganda e di reclutamento di nuove leve, consapevoli di quanto sia breve il rendersi successivamente protagonisti di pestaggi al di fuori di quel contesto sportivo, a danno del diverso.
Il tentativo di combattere il razzismo non è mancato, sotto 3 punti di vista.
Il primo fu normativo. Norme contro discriminazioni furono previste dalla legge ordinaria, a cui si aggiunsero ulteriori ragguagli come la legge 25 Giugno 2003 (detta Legge Mancino), con la quale si vieta l’ingresso in campo a coloro i quali si presentano con “emblemi, simboli proprio usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” .
Il secondo sistema di contrasto fu determinato e messo in atto dai grandi organi del sistema calcistico mondiale, dalla Fifa all’Uefa, giungendo all’interno di ogni federazione nazionale presente a livello calcistico nei cinque Continenti. In pratica, chiunque voglia entrare allo stadio, non deve essere razzista. In caso di manifestazioni xenofobe, la responsabilità ricade immediatamente sia sul protagonista della vicenda, sia sulla Società calcistica di casa. Ad essa spetta, quindi, il mantenimento di ordine all’interno dello stadio ed il controllo costante dei propri tesserati, attuando, nel caso ve ne fossero gli estremi, contromisure antirazziali con la collaborazione delle forze dell’ordine. [...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

Le marche nel Pallone: La rappresentazione pubblicitaria del Calcio

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Informazioni tesi

  Autore: Fabrizio Fava
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2010-11
  Università: Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
  Facoltà: Economia
  Corso: Comunicazione d'impresa
  Relatore: Angelo Ghidotti
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 266

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