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L'italiano regionale sardo nel romanzo "Accabadora" di Michela Murgia

Prestiti dal sardo

I prestiti dal sardo sono pochi e ben integrati con il resto del testo. La loro presenza non è evidenziata dall’uso del corsivo, come succede invece con i prestiti dal latino, di cui citiamo due esempi: “Aveva avuto il permesso di stare sveglia a giocare fino al tocco dell’Ave Maria, poi Tzia Bonaria l’aveva accompagnata in camera per dare inizio al buio in anticipo, chiudendo le imposte e riempiendo il braciere di tizzoni e cenere calda” (pag. 12). “Il vecchio prete […] entrando a casa dei Bastíu si dedicò un Pater noster con autentico fervore di scongiuro” (pag. 95).

Soltanto in due casi la presenza delle parole sarde è messa in rilievo, e questo avviene attraverso l’uso delle note a piè di pagina che ne riportano il significato in italiano. Si tratta dei due soprannomi attribuiti dai sorenesi al sacerdote: in questo caso la traduzione è indispensabile per capire il motivo che sta alla base della scelta dei due nomignoli. Dopo aver detto che il sacerdote aveva una pancia rotonda che cercava di nascondere lisciandosi continuamente la tonaca, la Murgia aggiunge: “I più bonari gli avevano storpiato il cognome in Pisittu, forse perché quella sua ossessione mimica ricordava il leccare certosino dei gatti per allisciarsi il pelo. Qualcuno però lo chiamava più perfidamente Tzicu, che oltre a essergli diminutivo del nome, malignava su un’origine alcolica del gonfiore al ventre” (pag. 72).

Successivamente l’appellativo don Tzicu è ripreso due volte: “-Accompagna don Tzicu alla porta, mamma. Ha fretta e non può trattenersi oltre” (pag. 76, Nicola). La frase pronunciata da Nicola conclude l’incontro tra il ragazzo e il sacerdote, che era andato a trovarlo. Il figlio maggiore dei Bastíu ha appena buttato fuori di casa il prete e rimarca il concetto davanti a sua madre usando appositamente il soprannome per evidenziare, se ancora ce ne fosse bisogno, che la presenza del vecchio non è gradita. “Conoscendo le cose come stavano, quando don Tzicu seppe che il morto era Nicola, si segnò con un gesto a metà tra la croce e lo scongiuro” (pag. 94). Qui a parlare è la Murgia che racconta apparentemente in modo oggettivo, ma in realtà si schiera contro il sacerdote ridicolizzandolo, come già aveva fatto quando, presentandolo, aveva paragonato la sua figura vista di profilo a una lucertola che avesse ingoiato un uovo. Si tratta di un ulteriore esempio dell’ironia usata dall’autrice nei confronti di alcuni dei suoi personaggi, di cui abbiamo parlato nel secondo capitolo.

Per la maggior parte delle altre parole il significato non è indicato, perché non esiste un corrispettivo in italiano: si tratta infatti per lo più di nomi propri di luoghi (Mont’e Mari, Mont’e Sali, Pran’e boe, Turrixedda) o di nomi di cibi tipici: “Le sorelle Listru lavorarono quasi senza sosta, alternandosi i compiti per dar vita al miracolo di un esercito di capigliette ricamate di zucchero come trine, chili di tiliccas gonfie di saba, cesti colmi di aranzada dal profumo speziato, scatole di latta piene di croccanti bamboline di zucchero, e centinaia di rotondi gueffus di mandorle, avvolti uno per uno a caramella nella carta velina bianca sfrangiata all’estremità come le torri guelfe” (pag. 46); “Se Nostro Signore Gesù Cristo aveva permesso che suo fratello perdesse una gamba, figurarsi se non permetteva ai morti di mangiarsi due culurgiones” (pag. 86); “[Le anime] mangiano finchè viene giorno, nel buio della casa scambiano il sugo dei culurgiones per sangue e la carne di porcetto per cosce e guance ancora rosse, e non si accorgono che dietro le altre porte ci sono i vivi interi, se nessuno glielo ricorda. In quell’istante Andría seppe che, se fosse sopravvissuto, non avrebbe mai più toccato un culurgione in vita sua” (pag. 90); “-Lo sai perché i gueffus si chiamano gueffus?” (pag. 44, Maria); “-Prima di uscire prendi un altro dolce. Lo sai che si chiamano gueffus come certi cavalieri del Medioevo?” (pag. 79, Giannina); “Era una fine di ottobre con preparativi di dolci, e sul tavolo della cucina erano stati lasciati gli ingredienti per i pabassinos dei morti […]” (pag. 109); “Per anni avrebbe associato il profumo dei pabassinos a quel ricordo […]” (pag. 111); “-Adesso fai un’altra cosa bella, finiscimi i limoni, che devo mettere la cappa ai pirichittus” (pag. 45, Bonacatta).

Questo brano è tratto dalla tesi:

L'italiano regionale sardo nel romanzo "Accabadora" di Michela Murgia

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Informazioni tesi

  Autore: Alessandra Piseddu
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2011-12
  Università: Università degli Studi di Cagliari
  Facoltà: Lingue e Letterature Straniere
  Corso: Lingue e linguaggi per la comunicazione multimediale e il giornalismo
  Relatore: Maurizio Trifone
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 91

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Parole chiave

italiano regionale
accabadora
michela murgia
narrativa sarda
nuova narrativa sarda
nouvelle vague sarda

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