Immaginazione e follia nella prosa di Lorenzo Viani
La Follia di Angiò
Angiò è in continua lotta contro sé stesso e contro un'umanità che non lo accetta. Egli è continuamente invaso dalla paura di essere dileggiato, e da essa si scatenano gli eccessi che fanno di Angiò il prototipo maestro del grottesco vianesco. Nel capitolo XIV, sentendosi provocato da una carovana di carri di contadini e bestiame scatenò un putiferio:
Angiò, inferocito attorciò con una mano la frogia di un bue e diè una strappata: la bestia avvincò il collo, muggì, rinculò, il timone sgrugnò la bestia aggiogata al carro dietro e tutte le carra si percossero insieme [...] - sono il re del mare! E svettava il timone come un molinello. [...] E divincolandosi da Fello che lo teneva per un orecchio del giacchettone, andò di corsa dietro ai mandriani urlando: -Scendete uno, o voli, venite e misurarvi col re del mare! Di lì a un'ora ritornò il nano impastato di terra e sudore. [...] -Ma tu -disse pacato Fello -oggi torni al capanno in zavozza. -Fello non aveva ancora ultimato di proverbiare che il nano fuggiva verso il Magra come una palla si schioppo. -E' dato in mattia -disse addolorato Fello. Verso il Credo ritornò giù il nano. Lo dovevano aver battezzato con olio di legno Santo che camminava come uno che avesse giurato il falso. Gli abiti aveva a pezzo e il viso ammaccato, in una mano stringeva il catalano sanguinante, aperto e, nell'altra, una specie di cocca di giacchetta. - Oggi il mare stracca orecchi di ciuco-gridò invasato Angiò.
Angelo Bertuccelli è il re della spiaggia, non pago di questo, riavanza all'attacco dei suoi nemici, per tornare con gli abiti a pezzi e il viso martoriato dai colpi, ma anche l'orecchio di un asino, simbolo di una lotta impari ma non di una sconfitta. E' questo il modo che usa Angiò per farsi giustizia, per uscire da quello status di anormalità e vincere sulla stessa natura che lo ha incatenato. Un episodio simile si ha nel capitolo 25, in cui la follia di Angiò tocca i vertici più alti: tutto iniziò con un litigio fra Fello e il Ferrone. Il nano lo accusò di averlo reso oggetto di scherno convincendolo a rimanere fermo nel passaggio di un gruppo di ragazzi.
Uno di essi innocentemente lo chiamò "nonno", e Angiò sentitosi ingiuriato lo rincosse gettandosi infine sulle sue spalle. Una volta riconosciuto incominciarono ad insultarlo e ad inseguirlo, convertendo il nano da carnefice a vittima. Da allora Angiò non rivolse più parola all'amico, rinnegando il giorno in cui si conobbero: "è lui che mi ha parato anche stasera dentro la nassa. Dopo quella dei funai dovevo sotterrarlo al calcio di un pioppo. [...] Questa volta è l'ultima, lo giura Angelo Bertuccelli: Spaccaporte di ferro e vecchio navigante dell'Oceano".
Un dì, immerso nella solitudine e nel silenzio, si diede ai ricordi degli eventi passati, e quello che più lo affliggeva era l'amicizia con Fello: "Il Marzocco doveva essere il bastone della mia vecchiaia e invece mi ha sacrificato a questo mondo: Coltello infame non t'arruginire, Acciò ch'io possa far la mia vendetta, o l'uno o l'altro bisogna morire". Il giovedì seguente Angiò si recò al paese, e comprò 15 scatole di fiammiferi. Tornato nella sua capanna prese un pentolino e mise in fusione tutti i fiammiferi comprati, e andò a letto "allegro e folle".
La notte si sviluppò il temporale, le saette si mischiavano alle onde del mare e il vento faceva vibrare la capanna del Ferrone, che ignaro non aprì occhio. La mattina seguente si destò dal sonno e mosso dall'idea di "far quella che tre pelano un cane", si diresse con impeto verso il catinello per spegnerlo. Successivamente
trasse da un sacco un vecchio balaimme di peluche nero, se lo infilò; gli toccava i nodelli, si dette di volta nella vita con un ceppo di pioppo. [...] Quando si fu vestito andò sul catinello, e con l'impasto dei fiammiferi s'introgolò il viso, la testa e il collo, quando si fu fratocciato per ben bene trò fuori un caldarello di catrame e si spalmò le mani che gli diventarono nere come le granfie di un corvo. Staccò dal muro il manico del contrabbasso e a guisa di uno che sia colto da breve pazzia aprì l'uscio e scappò verso il paese.
Angiò, conciato in tal maniera e con la testa fosforescente, sembrava una lucciola. I pescatori così vedendolo, credettero che si trattasse di un'anima dannata e presi dal panico scapparono per il paese gridando e intimando la gente a barricarsi in casa e a tirar fuori dalle finestre i crocefissi. Il nano entrando nelle stalle liberò gli animali, e i muggiti e i nitriti reserò lo sgomento più forte. "Il demonio aveva straziato le bestie, tagliato gli orecchi ai ciuchi, reciso le froge ai buoi, scalciate le code ai cavalli, risegolate le zampe alle pecore, incicciato i maiali strozzate le galline, smusati i conigli, accorate le scrofe".
Sudato e senza forze il Ferrone tornò nella sua capanna, e un gruppo di marinai e un cappuccino si recarono al cimitero, e sollevando al cielo la Croce, chiesero invano al presunto demonio quale fosse la pena che lo affliggesse. Angiò riuscì a seminare terrore e sgomento, con una crudeltà e una pazzia senza pari. Nessuno lo riconobbe, neanche Fello che si diresse nella sua dimora per accertarsi del suo benessere. Quella notte il nano fece pecore che gli facevano mille riverenze e case tempestate da morti.
I campi stecchiti, delle gambe dei ciuchi volti in su, coi ventri ridotti palloni dalla buzzamaglia infiammata, i cavalli ridotti lornii, stavano appoggiati ai pioppi e dalle code buttavano sangue come polle, i bovi scornati girottolavano melensi per le catastrofe, polli e pollastri erano sparpagliati ovunque. I maiali grugolavano colla maonaglia fuori, i conigli eran divertiti da un cane mastino, le pecore zoppe andavano mendiche per le corti. Il cielo sbogottito chiedeva novelle al mare in ispavento.
La mattina seguente non vi era persona alcuna che costeggiasse le acque, e la città era deserta. Il Ferrone, sempre più compiaciuto del disagio creato, si lavò e si cibò con sarde con pesto d'aglio e peperoni. La stanchezza lo conciliò con un sonno profondo durante il quale sognò una mandria di corvi che lo onoravano, formando con i loro corpi un velo nero sulla sua testa, per l'immensità del cibo donato: corpi morti o morenti di animali e persone. "-Aù, Aù, Aù-bramiva in sogno Angiò e governava il corvo con dei bacherozzoli e gramignoli che coglieva sui ginepri". Nel sogno si presentarono immagini spietate:
Angiò vedeva passare mandrie di bestiame scònsole, i bovi indolaccavano qua e là col capopesante e scornato, i ciuchi orbi annusavano le covate dei cavalli che da polledri eran ridotti brenne le pecore nièciore nièciore, tentennon tentennoni andavano con gli ugnòli sotto gli zoccoli dei cavalli dicendo:-fatti in costà.-alae ruzzolavano nelle fosse, i montoni ingelositi e cornate trivellavano i ventri dei cavalli e dai fori gli colava la maonaglia, i cani pieni di setole e di roccia ripigliavano le parti dei cavalli e azzannavano le code ai montoni, i ciuchi ragliavano impermaliti perché le ciuche andavano a murata sei porci i porci castrati grugolavano le scrofe che facevano le sclulèzzore coi verri.
Il registro cambia, e aderisce all'argomento trattato. La pazzia di Angiò viene raccontata tramite la parola dilaniata, spogliata da ogni forma romantica e investita dalla volontà dell'autore di rendere ben visibile la scena rappresentata.
Questa impresa, a differenza della prima contro i contadini, si svolge in uno spazio più ampio, investendo pescatori, paesani e villici, e soprattutto è compiuta sotto mentite spoglie. In questo caso Angiò più che un riconoscimento di pazzia, "desidera ora soprattutto incutere una dannata paura al prossimo". Il nano vuole ampliare a dismisura i limiti del territorio in cui imporre il timore di sé e comprende che non può far questo affrontando i suoi nemici con il suo aspetto normale, ed è qui che ritorna il tema della carnevalizzazione. Anche la promiscuità tra razze diverse è sinonimo del grottesco che investe tutto il romanzo.
Le sue ribellioni, i suoi scoppi di violenza, apparentemente immotivati, hanno alla radice un senso di esclusione, una rabbia di vuoto che gli si accresce intorno, "solo l'immaginazione compensa il negativo della realtà e per essa Angiò costruisce un'immagine di sé di uomo forte, valoroso, invincibile ma non riesce a rimuovere completamente la consapevolezza di impotenza".
L'animalizzazione è per Angiò la cifra del suo disperato e impossibile riscatto. E' condannato a essere "mostro" dalla natura e "bestia" dalle crudeli stranomazioni. Attraverso il mostruoso travestimento da gigantesca lucciola luminescente si lancia nella sua folle vendetta. Gli animali additano all'uomo una dimensione per lui ormai perduta, una purezza, una possibilità:
L'uomo è una maledetta bestia che si adatta! Hai visto la iena nella gabbia? Gira sempre su e in giù, aggiornate intiere, con gli occhi opachi orlati di rosso. Quando annotta ha fatto tanto cammino quanto ne farebbe nella foresta nera [...]. L'uomo si sdraia, si avvilisce e si morde dentro come la cincina. [...] L'uomo è una brutta bestia che si adatta ovunque. L'imbestiamento avviene proprio quando "l'uomo travalica i limiti e si fa metafora crudele di un umano ormai privo del suo usurpato dominio.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Immaginazione e follia nella prosa di Lorenzo Viani
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Informazioni tesi
Autore: | Sara Rubino |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2008-09 |
Università: | Università degli Studi di Roma La Sapienza |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Studi Italiani |
Relatore: | Francesco Muzzioli |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 62 |
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