Il confine orientale e la questione dell'esodo istriano
La “bonifica etnica” operata dal fascismo nei territori nord- orientali
Durante il ventennio fascista l’area giuliana conobbe un periodo di stasi economica che colpì soprattutto le etnie slave e croate; l’esempio più evidente fu quello della città di Trieste, che aveva rappresentato il porto principale dell’Impero austro-ungarico, divenendo un vero e proprio emporio internazionale.
Con la disgregazione dell’Impero e l’annessione all’Italia, Trieste perse la sua importanza strategica ed economica e vide l’impoverimento del suo ceto imprenditoriale e mercantile. «Quanto all’Istria, il dibattito sulle sue condizioni negli anni Venti e Trenta è spesso oscillato tra due letture speculari. La prima[…] è tesa a magnificare le “opere del regime” nella penisola, in particolare quelle di bonifica della Valle del Quieto e del Lago d’Arsa. La seconda […] è invece centrata sul concetto di “governo del sottosviluppo”, vale a dire sull’incapacità del governo italiano di promuovere la crescita economica dell’area istriana.[…] tuttavia è evidente che la politica delle infrastrutture avviata dallo Stato italiano negli anni Trenta fosse diretta proprio ad aggredire i principali ostacoli che limitavano le possibilità di sviluppo dell’economia istriana, e cioè la mancanza di strade - che innalzava i costi di trasporto, ponendo fuori mercato molte produzioni locali- e la carenza d’acqua, piaga secolare della regione. I risultati conseguiti furono tutt’altro che trascurabili, ma i tempi di realizzazione furono così dilatati che i benefici indotti prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale non risultarono mai decisivi.»
Il 13 luglio 1920 fu una giornata di accese violenze a Trieste. Nel tardo pomeriggio circa duemila persone si riunirono in Piazza Grande per un comizio tenuto da un leader locale dei Fasci di combattimento, Francesco Giunta. Il tema della discussione erano gli scontri avvenuti il giorno precedente a Spalato tra croati ed italiani, durante i quali tre italiani erano stati uccisi. Al termine del discorso due persone vennero pugnalate, probabilmente colpevoli di aver pronunciato alcune parole in slavo. La stessa sera dimostranti e forze dell’ordine assaltarono il Narodni Dom (Casa del Popolo sloveno), dando alle fiamme l’intero edificio, compreso l’Hotel “Balkan”, e sembra che ai vigili del fuoco venne dato l’ordine di non intervenire. L’incendio del Narodni Dom si presta bene a simboleggiare quello che dalla storiografia venne definito “il fascismo di confine”, con il suo acceso antislavismo, teso non tanto ad eliminare demograficamente gli slavi, quanto a schiacciarne i ceti più elevati socialmente e culturalmente. Il Narodni Dom, con i suoi circoli culturali e ricreativi testimoniava, infatti, che gli salvi non erano una popolazione fatta solo di rozzi contadini, ma anche di borghesi ricchi e colti. Era questa la reale minaccia per il fascismo di confine più che la presenza slava tout court; secondo Raoul Pupo, infatti, “l’obiettivo che essa si proponeva, e cioè la cancellazione dell’identità nazionale slovena e croata, non fu nemmeno lontanamente sfiorato. Alla fine degli anni Trenta infatti, la componente slava della popolazione giuliana risultava pressoché stabile dal punto di vista demografico rispetto ai livelli di vent’anni prima, anche se il suo profilo sociale era stato ridisegnato a forza mediante la decapitazione degli strati superiori e la dispersione dei ceti intellettuali.”
Il fascismo procedette all’ “italianizzazione” soprattutto dal punto di vista linguistico, favorendo, e anche premendo, per la trasformazione dei cognomi stranieri in cognomi italiani, per la revisione della toponomastica e per l’utilizzo prevalente della lingua italiana. La riforma del ministro dell’Istruzione Giovanni Gentile nel 1923 comportò la graduale messa al bando dagli istituti scolastici, di ogni ordine e grado, delle lingue delle comunità nazionali appena annesse all’Italia (tedesco, sloveno e croato); si arrivò alla totale estinzione, in Istria, di classi che prevedevano insegnamenti in sloveno o croato verso la fine degli anni Venti. «Nel 1925 in forma ufficiale fu abolito l’uso della lingua slovena e croata negli uffici, nei tribunali, nelle scuole, nelle chiese e nei locali pubblici»
Il fascismo si insinuò anche all’interno dell’unica istituzione all’interno della quale la lingua slava continuava ad essere utilizzata clandestinamente, ossia la Chiesa. A seguito dei Patti Lateranensi firmati l’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede ed il Regno d’Italia, i fascisti riuscirono a rimuovere dal loro incarico due strenui difensori dei diritti nazionali dei loro fedeli slavi: l’arcivescovo di Gorizia Francesco Borgia Sedej ed il vescovo di Trieste Luigi Fogar.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Il confine orientale e la questione dell'esodo istriano
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Informazioni tesi
Autore: | Eleonora Zeroli |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2010-11 |
Università: | Università degli Studi di Perugia |
Facoltà: | Scienze Politiche |
Corso: | Scienze politiche e delle relazioni internazionali |
Relatore: | Loreto Di Nucci |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 58 |
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