George Orwell e la questione coloniale
L'antimperialismo
Il peculiare atteggiamento d’avversione nei confronti del fenomeno imperialista che si nota in tutta la sua produzione giornalistica e letteraria sarebbe nato, a detta dello stesso Orwell, proprio dalla personale esperienza in Birmania vissuta in età giovanile.
Nella prefazione all’edizione ucraina a La fattoria degli animali, nel presentarsi ai lettori egli dichiarava infatti:
I went to Burma and joined the Indian Imperial Police. This was an armed police. […] I stayed five years in the service. I did not suit me and made me hate imperialism., although at that time nationalist feelings in Burma were not very marked, and relations between the English and Burmese were not particularly bad.
A disgustarlo, in particolar modo, era la crudeltà e l’ipocrisia della macchina coloniale britannica, il rapporto instauratosi fra conquistatori e le popolazioni conquistate basato sulla forza e sulla presunta superiorità dell’uomo bianco, il nazionalismo patriottico rivolto ad una madrepatria idealizzata affiancato ad una debolezza di spirito della casta inglese dominante.
La presa di posizione netta contro l’imperialismo emerge in maniera evidente nel saggio autobiografico Shooting an Elephant (1936) dove l’autore, descrivendo un episodio realmente avvenuto, la fuga di un elefante all’interno di un villaggio e la conseguente mobilitazione delle forze armate britanniche incapaci però di gestire la situazione, afferma:
Fu in quel momento, [nell’impossibilità di risolvere la questione] mentre me ne stavo lì col fucile in mano, che mi apparve per la prima volta chiara tutta la falsità, tutta la futilità, del dominio dell’uomo bianco in Oriente.
Eccomi là, l’uomo bianco con il suo fucile, davanti alla folla degli indigeni disarmati – in apparenza il protagonista della rappresentazione; ma in realtà ero soltanto un assurdo burattino, fatto ballare di qua e di là dalla volontà di quelle facce gialle alle mie spalle.
E continua:
… Compresi in quel momento che quando l’uomo bianco si trasforma in tiranno è la propria libertà che egli distrugge. […] La condizione essenziale del suo dominio è che dedichi tutta la vita a cercare di impressionare gli “indigeni”.
Si percepisce da queste parole un distacco netto dalla visione dell’uomo bianco nel ruolo di civilizzatore; il «fardello dell’uomo bianco» di Rudyard Kipling viene qui sostituito da un’idea incentrata sul colonizzatore che «lotta per non farsi ridere dietro», la cui autorità insomma, non viene riconosciuta da nessuno se non all’interno della piccola cerchia autoproclamatasi depositaria della sovranità.
Tale concezione riappare anche nel romanzo Giorni in Birmania (1934), nel quale l’autore affida al personaggio di Flory, commerciante inglese intimamente scisso fra la sua appartenenza alla bigotta comunità bianca e i doveri che ne conseguono e il senso di curiosità e attrazione provato verso gli usi e i costumi della civiltà autoctona, il compito di esprimere le sue personali considerazioni.
Illuminante a questo proposito è il dialogo, presente nel terzo capitolo, che avviene fra Flory e il Dottor Weraswami, indigeno fermamente convinto della benevolenza occidentale:
Mio caro dottore […] come può sostenere che siamo qui per uno scopo diverso dal furto? È così semplice. I funzionari tengono fermi i birmani, mentre i commercianti vuotano loro le tasche.
Crede forse che la mia società potrebbe accaparrarsi i contratti per i legnami, se il paese non fosse in mano agli inglesi?
L’impero britannico è solo un’etichetta per distribuire monopoli agli inglesi.
E quando il medico ribatte affermando che in realtà l’impero non è da considerarsi come sfruttamento economico ma piuttosto come un’azione di civilizzazione, dal momento che «mentre i vostri uomini d’affari accrescono le risorse del paese, i vostri funzionari portano la civiltà, innalzandoci al loro livello per pura bontà sociale», Flory risponde: «Noi insegniamo ai giovanotti a bere whisky e a giocare a calcio,lo ammetto, ma ben poco altro» aggiungendo che lo sviluppo importato dagli amministratori è finalizzato solo ed esclusivamente alla realizzazione dei progetti occidentali. ( «Noi non civilizziamo, contagiamo la popolazione con tutte le nostre porcherie».)
Questo brano è tratto dalla tesi:
George Orwell e la questione coloniale
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Informazioni tesi
Autore: | Martina Burato |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2010-11 |
Università: | Università degli Studi di Padova |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Scienze storiche |
Relatore: | Merio Scattola |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 70 |
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