Giovanni Artieri e la letteratura a Napoli tra 800 e 900.
Pompeiani e napoletani
Molti anni fa, nell'autunno odoroso del mosto vesuviano, Giovanni Artieri, se ne andava a Pompei agli appuntamenti con il suo carissimo amico don Matteo. Conosceva di Pompei quasi tutto. Era una cittadina di quindici o sedicimila abitanti dove si parlava il dialetto degli Osci.
Solo nell'80 d. C. la sua lingua ufficiale fu il latino, quando dovette mutare il nome e prendere quello di Colonia Veneria Cornelia Pompeianorum. I ricchi vi andavano in villeggiatura, anzi più precisamente la grande e media borghesia, come diremmo noi oggi. Mentre la gente fina, gli aristocratici e intellettuali, se ne andava a Ercolano, più piccola e raccolta, poco distante.
Tale doveva essere Pompei se chiudiamo gli occhi e proviamo ad immaginarla vista da un elicottero. Strade e case aristocratiche, contraddistinte dal silenzio, a schiena con strade e trivi dove si levavano le grida dei pizzaioli,dei venditori di verdure fresche, di cibi cotti, il minuzioso clamore dei ragazzi. Larghi e piazze interrompevano il reticolato dei decumani e dei cardini e s'aprivano le grandi aree quadrate o triangolari dei fori,del circo, dei teatri.
Per quanto concerne il paesaggio, allora era diverso; poiché il Vesuvio mostrava solo il basso cono, che guardandolo oggi da Napoli, individua a sinistra il monte Somma; essendo il vulcano spento dai millenni della preistoria e pronto a risvegliarsi per quella eruzione terribile delle quattro giornate dell'agosto del settantanove, in cui si formò il gran monte a destra(guardando da Napoli) che oggi chiamiamo Vesuvio. Quell'unico cono dunque, si profilava all'orizzonte chiaro e brillante, coperto di vigna, ville e stradine sinuose.
Il già citato don Matteo Della Corte dal 1902 lavora a Pompei e vi iniziò quel metodo diretto di assistenza allo scavo che lo portò a comporre un volume delle opere che meglio raccontano questa città e non solo: Corpus Inscriptorium Latinarum. Dalle minuziose ricerche ed analisi si hanno le definizioni di molte case, la maggior parte delle quali, a due piani, di rado a tre, tutte composte nello stesso disegno, secondo il censo e il grado sociale dei proprietari,si viveva presso a poco secondo gli stessi comodi e scomodi di una casa popolare napoletana. Facendo salvo, il gusto delle pitture parietali nei quartieri padronali.
Alla fine dell'analisi del volume della cortiano è bene farci un'idea di Pompei come dovette essere, senza sfuggire ad un paragone con Napoli nella sua più elementare vita popolare. La maggior parte della società si divideva nelle due grosse branche di padroni e servi; più nel dettaglio poi vi erano: nobilucci, gentiluomini di campagna, borghesi trafficanti, plebei arricchiti e via dicendo. Era gente vivace,amica del buon vivere, erotica, amante di spettacoli e feste, largamente superstiziosa. Di Pompei, il libro di don Matteo, ci da il senso vivo e profondo: come l'entropia che è stata tanto forte da non essere sopita dalle fiamme del Vesuvio. Poi scopriremo che quella stessa vitalità è pervasa fino ai vicini napoletani.
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Informazioni tesi
Autore: | Antonella Graziano |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2009-10 |
Università: | Università degli Studi di Napoli - Federico II |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Cultura e amministrazione dei beni culturali |
Relatore: | Francesco D'Episcopo |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 213 |
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