Studi sul ''crimen ambitus''
Movimenti politici nella repubblica romana
Per poter analizzare e comprendere i sistemi che concretamente vengono attuati al fine di condizionare il regolare svolgimento delle assemblee e della propaganda elettorale, pare opportuno soprattutto fornire un quadro generale delle classi, dei movimenti e dei personaggi che animano la scena politica romana, in particolare dalla fine del IV secolo a. C., periodo della definitiva formazione dello stato patrizio-plebeo.
Ciò è altresì utile per conoscere le motivazioni e comprendere gli atteggiamenti dei protagonisti che caratterizzeranno le pagine che seguono. Già durante la lotta fra i due antichi ordini, diverse famiglie plebee avevano col tempo acquistato una forte posizione economica, e alcune di esse avevano intrecciato amicizie e collegamenti con famiglie patrizie, cioè con l’originaria nobiltà, la cui prima caratteristica era quella di essere una classe chiusa.
L’inserimento di queste famiglie plebee nel ceto dominante assume proporzioni concrete alla fine del IV secolo a. C. e contribuisce definitivamente a precisare i contorni di una nuova classe dirigente successivamente all’equiparazione dei plebisciti alle leggi. Quindi, intorno al 300 a. C., si forma completamente un gruppo di carattere oligarchico, la nobilitas, costituito da poche antiche genti patrizie superstiti e dalle stirpi plebee che potevano ormai contare fra i propri componenti un magistrato superiore (di regola un console). Le basi economiche di questo gruppo erano e rimasero principalmente i grandi possessi fondiari.
Gli uomini nuovi venivano dalla classe nota come equites (cavalieri). I cavalieri erano chiamati il “vivaio” del senato; si imparentavano con i senatori e con i nobili, sposando membri della loro classe, avevano gli stessi scopi sia nel campo intellettuale che sociale, e in generale i loro interessi economici erano identici. I più importanti erano agli occhi di Cicerone gli appaltatori pubblici (o pubblicani).
Altri cavalieri erano rappresentati dalle categorie dei banchieri, degli usurai e dei commercianti, che avevano ulteriormente aumentato i loro capitali durante l’espansione in Italia e dopo la seconda guerra punica. Per quanto riguarda l’ultimo secolo della repubblica, i moderni sono concordi con l’affermare che la politica romana fu in larga misura determinata dall’influenza di un ceto affaristico maturo e saldamente organizzato, composto da banchieri, pubblicani e appartenenti all’ordine equestre. Questi erano persone ricche, che avevano molti uomini al loro seguito: funzionari, amici, clienti, ospiti, liberti e schiavi, capaci di assistere i rispettivi patroni ove fosse necessario.
L’ultimo strato sociale della popolazione libera era l’enorme massa dei non abbienti, che andava dai semi-poveri (piccoli commercianti e artigiani) ai poveri, a quella plebe disoccupata, affamata, dedita al vagabondaggio e pronta a vendersi al maggior offerente. Le leggi agrarie dei Gracchi avevano chiamato dalla campagna alla città quanti ancora restavano liberi lavoratori miserissimi. E quando P. Clodio nel suo tribunato fece le distribuzioni di grano completamente gratuite, si trovò iscritta sulle pubbliche liste una moltitudine di 320000 cittadini, messa a carico dello Stato, vera sanguisuga dell’erario, come la chiamava Cicerone.
E fu così che gran parte dell’elettorato fu costituito dai mendichi del pane e delle grazie dei candidati, e questi a loro volta i compratori dei poteri. In questo scambio vergognoso si assorbe la storia dei Comizi elettorali nell’ultimo secolo della repubblica. Tutti oggi riconoscono che né i popolari né gli ottimati (le due classi tipiche protagoniste della scena politica), costituivano partiti in senso moderno, con esistenza e organizzazione continuative. A Roma le elezioni decidevano soltanto chi dovesse svolgere compiti amministrativi e giurisdizionali, comandare eserciti, e attuare politiche
debitamente stabilite dal popolo o dal senato. I candidati di rado proponevano un programma legislativo, e comunque gli elettori, eleggendoli, non si impegnavano a votare per disegni di legge da essi eventualmente proposti in seguito. I magistrati, collettivamente, non formavano un governo nel senso moderno, e la composizione del senato, sebbene esso fosse formato da ex-magistrati, non era modificata dalle elezioni di questo o quell’anno e i senatori non erano soggetti a disciplina di partito, né a consentire, per conservare il potere, a provvedimenti che disapprovavano.
La base sociale degli optimates è costituita dalla nobilitas e le sue strutture organizzative s’imperniano su due istituzioni fondamentali e tipiche del mondo romano: la clientela, per i rapporti con la gente di rango inferiore, e l’amicitia, per le relazioni interfamiliari cittadine. Mentre i popolari svolgono le più grandi battaglie nei concili plebei, opponendo alle clientele dell’aristocrazia la propaganda pubblica e le dimostrazioni di piazza.
Soprattutto nel periodo successivo all’introduzione del voto segreto nelle assemblee, a dimostrazione della nuova disposizione da parte dei tribuni della plebe ad agire in veste di campioni del popolo, quasi tutte le leggi da loro proposte avevano avuto la sanzione del senato.
Tuttavia, in realtà il senato trovava conveniente indurre i tribuni a proporre le nuove leggi che esso stesso voleva far passare. I tribuni venivano impiegati anche per porre il veto alle iniziative dei magistrati che il senato disapprovava o per accusare di fronte all’assemblea chi lo aveva offeso o era caduto in disgrazia. Quasi nessuna iniziativa era intrapresa dai tribuni se non su istigazione del senato o di qualche potente fazione al suo interno. Livio definì i tribuni “schiavi dei nobili”.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Studi sul ''crimen ambitus''
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Informazioni tesi
Autore: | Giuseppe Luvrano |
Tipo: | Tesi di Laurea |
Anno: | 2000-01 |
Università: | Università degli Studi dell'Insubria |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Giurisprudenza |
Relatore: | Giorgio Luraschi |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 179 |
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