La traduzione come metodo di comparazione: Octavio Paz, Antonio Tabucchi e Luigi Panarese, traduttori di Fernando Pessoa
Octavio Paz, teorico della traduzione
“L’attività poetica nasce dalla disperazione di fronte
all’impotenza della parola e termina nel riconoscimento
dell’onnipotenza del silenzio”
Octavio Paz
Nel suo importante saggio sulla traduzione “Traducción: literatura y literalidad” (1970), Octavio Paz, premio Nobel per la letteratura nel 1990, si oppone dichiaratamente alla teoria, tanto diffusa tra i linguisti suoi contemporanei, dell’intraducibilità delle lingue e in particolare della poesia.
La sua opinione, a tal proposito, analizza la prima fase di apprendimento di una lingua, ossia l’infanzia, quando il bambino crede che la lingua che gli permette di comunicare con il mondo che lo circonda sia la lingua “sin más”. Crescendo e venendo a contatto con altre lingue, completamente diverse, il bambino inizia a dubitare della propria. In questo modo egli non crede più che la sua sia la lingua universale, l’unica possibile ed esistente, ma scopre una pluralità di idiomi differenti gli uni dagli altri. Non c’è quindi una lingua universale, ma tutte le lingue formano una società universale, nella quale tutti si comprendono poiché le informazioni che si scambiano sono sempre le stesse. Questa universalità deriva dal fatto che tutte le lingue, seppur differenti tra loro, sono espressione dello stesso spirito. Uno è lo spirito, tante e diverse sono le sue manifestazioni.
Dopo la scoperta dell’America, nel 1492, la lingua parlata dagli indigeni non era considerata “lingua”; infatti, Cristoforo Colombo, in una lettera scritta ai Re Cattolici, affermava la sua volontà di portare con sé, in Spagna, tre indigeni perché imparassero a parlare tout-court e non a parlare il castigliano. Colombo scrive proprio “a parlare”, non “a parlare castigliano”, e dunque da ciò si deduce che per lui l’espressione degli indios non solo non era considerata una lingua, ma neppure un modo di esprimersi. Era idea comune che il selvaggio dovesse essere “convertito”, ovvero dovesse dimenticare il suo modo di (non) esprimersi per imparare finalmente a parlare. Il XVIII secolo, sotto questo punto di vista, rappresenta una grande svolta, poiché proprio in quest’epoca ci si inizia a interrogare sull’incomunicabilità tra le culture e sulla comunicabilità tra lingue affini. Nasce così il mito del “buon selvaggio”: anche quella dell’indigeno è una lingua, per quanto “strana”, ma la stranezza ora cessa di essere una devianza e riacquista la sua dignità.
Tuttavia, secondo Octavio Paz, è la traduzione che permette il passaggio da una lingua all’altra, che cancella le differenze tra le lingue e le rivela in maniera più chiara. Il linguaggio stesso è una traduzione, prima del pensiero e in secondo luogo di ogni segno linguistico e di ogni frase. Ogni traduzione è diversa, è una semplice invenzione e quindi costituisce un caso a sé; inoltre comporta una trasformazione del testo originale.
La traduzione riguarda tutti i generi letterari, incluso quello poetico.
Se la poesia, sin dall’antichità, era stata definita “intraducibile”, se non per mano di poeti stessi, il traduttore sostiene che non sempre i poeti sono dei buoni traduttori, e che qualsiasi traduttore può assumersi l’arduo compito di tradurre poesia. La traduzione poetica è un processo analogo a quello della creazione poetica, solo che avviene in senso inverso. La poesia, come il linguaggio, è caratterizzata dalla pluralità dei significati (polisemia). Non solo: essa riporta un’altra particolarità, ossia quella dell’immobilità e staticità delle parole. La poesia trasforma il linguaggio in modo tale da distaccarlo profondamente dalla prosa nella quale ritroviamo, invece, la flessibilità delle parole accanto alla tendenza di fissare i vari significati in uno solo. Il linguaggio, infatti è un sistema di parole mobili, che però non sempre sono intercambiabili. Dunque la poesia è sì linguaggio, ma va oltre poiché il poeta cerca di estrapolare le parole dal linguaggio per fissarle nella poesia e renderle inamovibili e insostituibili. Il suo compito è completamente diverso da quello del traduttore: il punto di partenza di questi non è il linguaggio in movimento, bensì il linguaggio fisso da cui cerca di svincolare le parole, affidarle alla lingua della traduzione e dar vita a qualcosa che sia simile al prodotto del poeta stesso. Ne consegue che il poeta, a differenza del traduttore, quando compone, non ha limiti, né meta alcuna da raggiungere. Il traduttore, invece, sa che alla fine la sua opera dovrà riprodurre la poesia che ha davanti ai suoi occhi.
Questo brano è tratto dalla tesi:
La traduzione come metodo di comparazione: Octavio Paz, Antonio Tabucchi e Luigi Panarese, traduttori di Fernando Pessoa
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Informazioni tesi
Autore: | Luisa Scialdone |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2008-09 |
Università: | Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" |
Facoltà: | Lingue e Letterature Straniere |
Corso: | Lingue e letterature romanze e latinoamericane |
Relatore: | Lucio Sessa |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 94 |
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