Filosofia ebraica o esperienza marrana? A proposito del dibattito sulle fonti del pensiero di Spinoza
La figura e l’opera di Baruch Spinoza sono state di solito inquadrate almeno sotto due preminenti aspetti.
Da un lato, guardando alle nuove emergenze filosofico-scientifiche che animavano la sua epoca, senz’altro rivoluzionaria, specie per quanto riguarda la nuova immagine dell’uomo che andava delineandosi.
Dall’altro lato, non potendosi obliterare il momento del suo rapporto con la tradizione ebraica, si è cercato di ricostruirne la dinamica nei termini di una rottura inconciliabile.
Tuttavia questi approcci trascendono presto o tardi nelle dicotomie e nella formula, omettendo un approccio che forse potremmo definire dialettico, di certo improntato a un’ insopprimibile complessità.
E la complessità, nel caso di Spinoza, è non meno quella dell’ambiente circostante che quella del filosofo.
Amsterdam, dunque, e la sua comunità sefardita.
Un contesto, quest’ultimo, in cui la certezza della Halakhà, della Legge e della normativa ebraiche, è una certezza irrequieta. L’esigenza di rendere solida una comunità come quella portoghese di Amsterdam, da parte del rabbinato locale, non poggiava soltanto sull’auctoritas dei dettami cultuali, ma anche sul necessario collante civico-politico che doveva sostenerla. Non si trattava solo di preservare la religione dei padri, ma farne il viatico per tenere unita una compagine sociale ‘difficile’, specie per la portata destabilizzante di fenomeni come il marranesimo.
Ecco perché un’indagine sull’Herem che colpì Spinoza non è solo estrinsecazione di zelo biografico, ma fornisce spunti alla riflessione su come dovettero interrelarsi i liberi convincimenti e la libera condotta di un giovane ebreo di non comune intelligenza e le preoccupazioni del Mahamad, l’organo che comminò la scomunica al nostro.
Due mondi non però così inconciliabili come una tale indagine potrebbe far credere.
Un’analisi più attenta mostra infatti come, di là dalle indubbie differenze, una contiguità di fonti sia rinvenibile tra Spinoza e i custodi dell’ortodossia.
Ed ecco ancora perché la transizione verso la modernità, letta attraverso Spinoza, non rivela soltanto una compresenza del vecchio e del nuovo nel loro drammatico confronto, ma, vorremmo dire con Derrida, la empie di margini, di sovrapposizioni, di lacerazioni.
E la lacerazione è il nome proprio del marranesimo.
Di origini marrane sono Spinoza e una buona fetta della comunità sefardita.
Se guardando alle fonti si possono rintracciare punti d’incontro con il rabbinato, ciò diviene qui impossibile: i marrani, i forzati della fede, individui dall’identità scissa, religiosamente ambigui, facevano problema. È stato detto che il marranesimo fu tra le ragioni che provocarono la scomunica di Spinoza. Perché il marranesimo ondeggiava nel dubbio, era l’ultimo tragico portato della Diaspora. E Spinoza aveva il marranesimo dietro di sé. Egli pareva averne ereditato i dubbi e il disincanto.
Si torna così a quella complessità ineliminabile dallo sguardo dell’interprete posto di fronte al pensiero di Spinoza. Non si può prediligere l’uno o l’altro aspetto – le fonti o il marranesimo – e questo non per amore della medietà – nulla nel corso dell’excursus che viene proposto parla in favore della medietà – ma perché si danno, in casi del genere, risposte multiple, ragioni differenti che convergono a dipingere l’euporia, e non l’aporia, nella quale ci si imbatte quando un pensatore riassume in sé l’amalgama del suo tempo e del suo personale percorso.
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Informazioni tesi
Autore: | Mauro Savino |
Tipo: | Tesi di Laurea Magistrale |
Anno: | 2012-13 |
Università: | Università degli Studi di Roma La Sapienza |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Filosofia e storia della filosofia |
Relatore: | Myriam Silvera |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 222 |
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