La tortura e i diritti umani. Esperienza sul campo e riflessioni teoriche
“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. [ … ]”, afferma l’art.1 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo.
Grandi interrogativi circa la veridicità o meno di questo assunto, mi hanno indirizzata, inizialmente, verso un’analisi piuttosto scettica, di quelli che oggi sono riconosciuti, a livello internazionale, come diritti “umani”. Esaltati ed acclamati, in ogni dove, come la nuova religione del XX sec., questi diritti hanno veramente una valenza universale? Combattuta, sin dal principio dei miei studi, tra il definirli reali od utopici, è solo nel dispiegarsi delle riflessioni teoriche contenute nella tesi che questo interrogativo ha trovato in me una risposta definitiva. Universalismo o relativismo? Interventismo o neutralismo? Sono questi alcuni dei temi che analizzerò all’interno dell’elaborato. La scelta dell’oggetto d’analisi parte da un’esperienza del tutto singolare che ho vissuto tra il luglio e il settembre 2005 nella PRISON CENTRALE DE BERTOUA (Camerun Est). Partita per questa nazione con la convinzione di dover partecipare ad un progetto di animazione per ragazzi orfani, mi sono in realtà ritrovata a lavorare in un ambiente veramente angustiante dove la violenza era, ed è, all’ordine del giorno. Un carcere maschile, con una situazione sanitaria disastrata, all’interno del quale gli uomini vengono percepiti, da chi li dovrebbe tutelare, senza alcuna dignità. Dove stavano in tutto questo i diritti umani? E la loro valenza universale?
Tratterò più approfonditamente la mia esperienza sul campo nella seconda parte della tesi decidendo di affrontare, inizialmente, in modo critico quella che è la tortura, tema centrale di questo resoconto. Partendo da una breve introduzione, nella quale illustrerò alcuni fatti storicamente rilevanti al fine di comprendere il dispiegarsi del passaggio da una forma di violenza pubblica-esemplare a carattere punitivo ad una forma privata con carattere invece educativo-disciplinare (prima parte), proseguirò analizzando gli aspetti più attuali sull’argomento, al fine di avvicinarmi al dibattito corrente sul tema. Inizierò quindi dall’analisi delle denunce presenti nei rapporti di Amnesty International (interventismo) e del CPT (Comitato per la prevenzione della tortura, neutralismo), esaminando il tema della violenza soprattutto all’interno delle carceri, soffermandomi brevemente sulla violazione della libertà nei commissariati, ospedali psichiatrici, prigioni militari, campi di transito e d’internamento per stranieri. Rifletterò infine, su ciò che attualmente esiste a livello politico e giuridico per garantire sicurezza in quei luoghi ove sia presente il pericolo di abusi. Riallacciandomi quindi al tema della tutela internazionale, manifesterò tutti quelli che erano i miei dubbi iniziali circa il sopravvento delle tesi universaliste nel dibattito attuale concernente i diritti umani e, più specificatamente, le convenzioni internazionali riguardanti la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti. “Rendere pensabili culturalmente i diritti dell’uomo è indispensabile all’antropologia più di quanto gli antropologi possano immaginare”, si tratta infatti di ripensare concettualmente e nei contenuti questi diritti, per sottrarli all’autorità deterministica della natura e per adeguarli culturalmente alle esigenze dei diversi popoli. Lo sforzo va indirizzato verso la ricerca di ciò che possa farci stabilire come il topos di una data cultura possa comprendere le idee non forgiate da essa, idee non sull’affermazione di una eguale concezione del mondo, dell’uomo e della conoscenza, ma sull’affermazione di uno stesso corpo di concezioni concernenti l’azione. “Universale è –infatti- il riconoscimento che esistano dei grandi mali intollerabili” (G. Harrison, “La soggettività del minore” in: A. Santiemma (a cura di), Diritti umani, Riflessioni e prospettive antropologiche, EUROMA, Roma 1998, p. 154).
A conclusione del mio lavoro, aprirò un dibattito su ciò che l’antropologia potrebbe fare e, lentamente sta iniziando a fare, per collaborare al risanamento ed al reinserimento nella società di persone che, a causa degli abusi e soprusi subiti, hanno perso il senso di solidarietà con la cultura di appartenenza sentendosi spesso come persone apolidi in cerca dei vecchi valori perduti che, con la forza, sono stati loro strappati. Il dolore fisico, l’abuso e/o il degradamento psichico tendono infatti a distruggere il senso di sé, nostro obiettivo sarà quindi quello di facilitare il ritrovamento della propria identità culturale, provando a dare un senso, ad addomesticare il dolore ed il conseguente trauma subito, essendo quest’ultimo un processo continuo, privo di forma, che continua a riproporsi, sin quando non trova espressione in forma di narrazione o di resoconto storico. Ma come l’antropologia può partecipare a questo dolore?...
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Informazioni tesi
Autore: | Vania Schiavone |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2005-06 |
Università: | Università degli Studi di Roma La Sapienza |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Scienze storiche |
Relatore: | Antonello Ricci |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 123 |
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