Lo specchio dei desideri. Stereotipi e luoghi comuni nei testi pubblicitari
È notte fonda. La casa è buia e silenziosa. La porta si apre ed entra un uomo stanco con una valigia, appena tornato probabilmente da un viaggio di lavoro. Si avvia verso la camera da letto per salutare la moglie che lo attende, e riposare finalmente nel proprio letto. Entra nella stanza, ma il letto è già occupato dalla propria moglie e dai propri bambini che dormono serenamente. L’uomo si intenerisce per la scena apparsa ai suoi occhi, sorride, rimbocca le coperte e va a dormire nel piccolo letto della cameretta. Il giorno dopo all’ora di pranzo, eccoli tutti riuniti, felici e festanti per il ritorno del papà, mentre assaporano gli spaghetti con il “dolce” sugo preparato dall’affascinate e premurosa mogliettina.
La scena da me descritta, tratta dalla sceneggiatura di un recente spot Barilla, è una situazione tipica, molto vicino alla quotidianità, che è possibile ritrovare in un numero elevato di pubblicità. Le immagini della pubblicità offrono infatti al consumatore non tanto delle informazioni sui prodotti, ma delle situazioni a cui gli attori sociali sono implicitamente invitati a conformarsi. In essa sono presenti personaggi, azioni, elementi, luoghi e rappresentazioni che il destinatario riconosce immediatamente e attraverso i quali riesce a costruire il particolare significato che il testo pubblicitario vuole comunicare. Queste rappresentazioni (ad esempio la figura del padre che torna dal lavoro, della madre che prepara da mangiare, i bambini felici, etc.) sono dei miti moderni, derivano dalla ideologia comune che una determinata cultura si fa riguardo a dei ruoli sociali, a dei concetti, a una visione del mondo. La pubblicità, seleziona porzioni di realtà che provengono dal “materiale grezzo” della società, ne valuta gli aspetti, li confeziona e presenta al vasto pubblico un catalogo di questioni raccontabili in un certo momento: proprio come diceva Baudrillard ingigantendo la questione, fornendoci queste rappresentazioni pre-costituite, derivate da credenze condivise, ci evita il pesante compito di immaginare e rappresentare il mondo. Infatti, frammenti di luoghi comuni vecchi e nuovi, codici e linguaggi familiari, personaggi e figure molto vicini alla nostra quotidianità, valori positivi e schemi mentali di riferimento finiscono tutti quanti nei testi pubblicitari che colorano le città e riempiono il nostro mondo percettivo.
Ma qual è il motivo per cui in pubblicità appaiono comunemente questi concetti condivisi, queste rappresentazioni collettive, che prendono il nome di stereotipi? La mia tesi ha proprio lo scopo di illustrare le ragioni per cui la pubblicità faccia un cosi ampio uso di figure stereotipate, dimostrando come queste siano dei fenomeni usuali e ordinari, facilmente riscontrabili non solo in qualsiasi testo narrativo, ma anche nei più semplici scambi comunicativi. Come spiegherò nei capitoli seguenti infatti, gli stereotipi non sono altro che un’estensione di un meccanismo cognitivo ordinario, quale è la categorizzazione, attraverso la quale “tagliamo a fette” il mondo fenomenico, diamo un senso a ciò che ci circonda. e interagiamo con esso producendo dei comportamenti adeguati, sulla base di determinate categorie che derivano dal nostro vivere in una società che valorizza determinati aspetti e produce differenti identità. Gli stereotipi, quindi, non sono niente di più che prototipi di categorie cognitive, che derivano dalla società che costruisce e distrugge mitologie.
Quello in cui sbagliano solitamente alcuni studiosi e la gente comune nell’approcciarsi alla pubblicità e ai luoghi comuni in essa contenuti, è il voler paragonare continuamente ciò che viene rappresentato nel testo pubblicitario con la vita reale, sottolineando ovviamente le enormi differenze che emergono tra i due contesti, e accusando la pubblicità di essere lontana da quello che è il mondo del consumatore. Non c’è alcun dubbio che quella rappresentata in pubblicità sia una realtà migliore della nostra! I personaggi, sebbene siano degli “eroi” comuni, che svolgono attività simili alle nostre e si imbattano in problemi piuttosto banali, sono sempre più belli di noi, guidano auto più costose delle nostre, e vivono in delle case enormi e lussuose. Più che essere lo specchio del sociale (come sostengono molti studiosi), la pubblicità si configura, a mio parere, come uno specchio dei desideri collettivi, che raffigura in maniera stereotipata non la società, non gli uomini, non le donne, ma quello che vorrebbe la società, quello che gli uomini desidererebbero essere, quello che le donne vorrebbero diventare, restituendoci alla fine quello che è, come direbbe Ugo Volli, un mondo figurativizzato, che operando una generalizzazione, si limita a riprodurre gli aspetti positivi delle cose.
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Informazioni tesi
Autore: | Maria Irrera |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2007-08 |
Università: | Università degli Studi di Messina |
Facoltà: | Scienze della Formazione |
Corso: | Teoria della comunicazione |
Relatore: | Pietro Perconti |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 97 |
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