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Perché amiamo tanto i complotti?
6 aprile 2020
“Sappiamo che nei primi anni del XX secolo questo mondo era osservato da molto vicino da intelligenze più grandi di quella dell’uomo, anche se mortali come la sua…”.
È il radiogiornale della Cbs e al microfono c’è il ventitreenne Orson.
Quello che racconta durante i sessanta minuti che seguono, senza pause né stacchi pubblicitari, è la cronaca di un evento incredibile: gli alieni hanno invaso gli Stati Uniti d’America!
Il suo è un adattamento sintetico de La guerra dei mondi, tra i più famosi romanzi di fantascienza.
Si trattava quindi di uno scherzo, una bufala.
Così ben studiata che ne parliamo ancora oggi, perché nel 1938 ci furono ingorghi stradali causati dai cittadini che si riversarono in massa sulle strade per fuggire il più lontano possibile dalla minaccia marziana.
Stai sorridendo con sufficienza?
Sbagli, perché quello che è successo allora si ripete ancora oggi ogni volta che crediamo ad una fake news, ad un complotto, ad una ricostruzione fittizia.
In fondo basta individuare un argomento che appassioni, preoccupi o scandalizzi per far cadere facilmente nel tranello.
Ma cosa contraddistingue una buona teoria del complotto?
La partecipazione di più persone, la segretezza, l'inganno e il fatto che vi siano una o più vittime.
Ed è chiaro che non è dato sapere chi siano il o i complottatori.
Secondo Gérald Bronner, sociologo francese, il grande dilagare di teorie complottiste nei giorni nostri è direttamente proporzionale alla mole e alla complessità delle informazioni che riceviamo.
Più cresce la sfida cognitiva di capire il mondo in cui viviamo, più aumenta l’inquietudine e quindi la ricerca di certezze, di spiegazioni semplici, che risultano poi semplicistiche.
Ci sentiamo vittime di eventi non controllabili, che non afferriamo.
E sostituiamo volentieri la nostra ignoranza con narrazioni spesso poco realistiche ma che hanno il pregio di dare chiarezza, appagarci perché sembra ci diano – finalmente – quella chiave di lettura che svela ogni nebbia.
Ci sentiamo vittime di forze che ci nascondono le cose, afferma Bronner, e siamo pronti ad abbracciare chiunque si presenti come paladino in grado di svelare l’inganno.
Su questa scia la comunicazione mediatica pare sia andata a nozze.
A meno di non credere ad un mondo pieno di complotti, possiamo supporre che si ecceda nello scrivere di complotti e cospirazioni.
Si parla di titoloni urlati, di ammiccamenti, di uso del linguaggio.
È lanciare il sassolino nello stagno dell’opinione pubblica e attendere che siano i cerchi sempre più ampi a decretarne la verità.
Concludiamo con la considerazione di Massimiliano Danesi, autore della tesi Complotto, congiura, cospirazione. L'uso politico delle teorie cospiratorie nei quotidiani italiani:
“Se il mercato dei complotti è tanto fiorente nell'arena mediatica è perché a una grande offerta di complotti da parte della politica (dell’economia, della finanza, dello sport, ecc.) corrisponde una altrettanto grande domanda di complotti da parte dei mezzi di comunicazione. La chiave narrativa del complotto, infatti, conviene tanto alla stampa quanto alla politica”.