Definizione di Flessibilità salariale
Nella visione marginalista, comporta la possibilità per l’impresa di variare le componenti dirette ed indirette della struttura retributiva in relazione all’andamento della produttività. Questo strumento viene invocato per accrescere la domanda di lavoro nelle aree depresse, dove il livello di competitività delle imprese risente di una produttività mediamente inferiore rispetto alle aree più sviluppate. In questa visione il salario funge da “prezzo riequilibratore del mercato ad un più alto livello di occupazione”. La teoria Keynesiana diverge, invece, da questa impostazione laddove asserisce che la flessibilità salariale assolve una funzione riequilibratrice del mercato del lavoro solo se il conseguente aumento della produzione viene assorbito da un aumento della domanda effettiva. Evento quest’ultimo che secondo Keynes è di difficile realizzazione in quanto il riequilibrio verrebbe vanificato da un livello dei consumi tale da rendere insufficiente la domanda. Per cui si determina una riduzione dei prezzi, un aumento dei salari reali e il ripristino della disoccupazione iniziale (trappola della liquidità). Tuttavia, negli ultimi decenni, questa contrapposizione è divenuta molto meno netta in seguito alle nuove formulazioni teoriche della Nuova Macroeconomia Classica (NMC) e della Nuova Economia Keynesiana (NEK). Nell’ambito di quest’ultima, in particolare, sono state elaborate diverse formulazioni teoriche, gran parte delle quali convergono su un dato fondamentale: il riequilibrio del mercato del lavoro, contrariamente a quanto sostenuto dallo stesso Keynes, è subordinato all’adozione di politiche di flessibilità salariale verso il basso. Nonostante l’analisi empirica non costituisca, per queste teorie, un valido supporto, esse hanno esercitato e continuano ad esercitare un’influenza notevole sulle politiche economiche di diversi Stati dei Paesi più sviluppati.