Strumenti di rappresentazione dell'antropologo
Strategie di localizzazione
La tendenza a praticare un certo tipo di etnografia spazialmente localizzata e la tendenza a concepire gli oggetti dell'antropologia come circoscritti spazialmente hanno dato luogo alle strategie di localizzazione, cioè il complesso delle "mosse" intellettuali, pratiche, teoriche ed ideologiche compiute dall'antropologo per rappresentare il proprio oggetto di ricerca come spazialmente situabile e riconoscibile e, quindi, appartenente ad un'area determinata. Strategia di localizzazione
. zonazione;
. territorializzazione
Gli antropologi hanno la tendenza a concentrarsi su una o due aree culturali con i seguenti effetti:
1) precomprensione: categorie epistemologiche, metodologiche ed interpretative attraverso le quali l'etnografo "filtra" la sua esperienza sul campo, cioè si accosta al proprio oggetto. L'etnografo, quando fa il proprio ingresso sul campo, è influenzato dal corpus di conoscenze riguardanti il "popolo" che sta per studiare; questo corpus è costituito dal lavoro di altri etnografi e consiste nella mappatura che non è una descrizione riproducente l'ordine "oggettivo" dei fenomeni bensì una "costruzione", il prodotto di un'operazione intellettuale.
La precomprensione che l'antropologo possiede sottoforma di mappatura del proprio campo ha importanti riflessi di detemporalizzazione delle realtà descritte nei testi etnografici e si traduce in un
potente effetto di localizzazione dell'oggetto della ricerca;
2) essenzializzazione: la mappatura individua in anticipo delle forme socio- culturali specifiche che si ritiene siano espressive di quel campo spazialmente individuabile. Essa consiste:
- nel considerare certe forme socio / culturali come "tipiche" delle società studiate dagli antropologi;
- queste tipizzazioni socio / culturali sono state associate ad aree che sono diventate il "luogo" per antonomasia di quelle tipizzazioni;
3) occultamento: le società "complesse" sono essenzializzate mediante la scelta di un loro "aspetto" che finisce per mettere in ombra tutti gli altri elementi che dovrebbero invece far parte di una considerazione più comprensiva e perspicua di quell'area (per esempio: India = caste, gerarchia…);
4) migrazione: alcune e particolari astrazioni etnografiche passano da un contesto areale ad un altro con problemi seri in relazione alla comparazione.
Metodo, validità ed autorità del resoconto etnografico
L'attendibilità del resoconto etnografico emerge dalla coesistenza di due fattori principali: la validità etnografica e l'autorità etnografica.
La validità etnografica è la combinazione di tre elementi:
1) indicazioni precise circa le scelte teoriche dell'antropologo;
2) descrizione del cammino seguito dall'etnografo durante la sua ricerca;
3) indicazioni su come, a partire dalle note prese sul campo, sia stato possibile passare alle argomentazioni contenute nel testo etnografico.
Il resoconto etnografico deve rispondere a determinati criteri di presentazione delle realtà studiate per farsi riconoscere come valido ed autorevole (autorità etnografica).
La funzione paradigmatica dell'autorità etnografica
I cambiamenti e le trasformazioni della pratica etnografica e della teoria antropologica sono da imputare alle trasformazioni dei paradigmi.
Un paradigma è un complesso di ipotesi, idee, pratiche di ricerca che guidano, a partire da un dato momento, il lavoro di una comunità scientifica. Lavorando in riferimento ad un determinato paradigma, la comunità produce una scienza "normale" nel senso che fonda la propria validità sul rispetto e l'adozione di determinate procedure (norme) riconosciute come "scientifiche" dalla comunità di coloro che fanno ricerca. I paradigmi antropologici rispetto a quelli scientifici:
- sono meno precisi;
- sono meno rigidi;
- contengono giudizi di valore;
- non riescono mai a produrre un consenso generale ed assoluto fra i ricercatori.
Il problema della presenza dell'autore nel testo etnografico (problema della firma) sorge come risposta a due problemi distinti:
1) caratterizzare l'antropologia come "sapere scientifico";
2) inserire un elemento comprovante l'avvenuta esperienza di ricerca in un campo in cui il singolo ricercatore può essere l'unico testimone del fatto che tale scienza sia stata condotta per davvero ed in un certo modo.
Per essere "autore", uno scrittore deve produrre opere cioè creare un discorso che possa diventare un punto di riferimento per produttori di altri discorsi che prendono l'opera di costui come modello.
I paradigmi antropologici, piuttosto che essere esplicitati attraverso una serie di regole e procedure, sembrano largamente coincidere con i testi di coloro che riconosciamo come "autori" cioè "modelli" da seguire nella presentazione della propria esperienza di ricerca.
Rappresentazioni etnografiche
Occorre fornire una rappresentazione di coloro che vengono studiati, la quale risulti plausibile e, al tempo stesso, non "tradisca" il loro modo di percepire la loro vita. La rappresentazione etnografica è in crisi perché oggi il problema di "rappresentare gli altri" non consiste più nel descriverne la vita bensì nel saperli inserire in un mondo localizzato dove, tuttavia, le peculiarità culturali possono ancora significare qualcosa. Gli antropologi hanno riconsiderato criticamente molti dei propri assunti di base:
1) il presupposto che l'inchiesta etnografica si articoli in uno "spazio" neutro non implicante alcuna relazione di potere fra antropologi ed interlocutori;
2) l'idea che la descrizione dell'altro fornita dagli antropologi non avesse nulla a che vedere con la "costruzione testuale della realtà".
1) Si traduce nell'idea che l'alterità culturale possa essere qualcosa di descrivibile alla stregua di un
fenomeno naturale (espressione culturale della dominazione culturale);
2) la traduzione dell'esperienza etnografica (cioè del contatto col "nativo") in una forma testuale è
un aspetto strettamente legato alla questione della scrittura etnografica.
Entrambi gli atteggiamenti critici:
- uno rivolto all'antropologia in quanto pratica alimentatasi a lungo di un contesto segnato dal colonialismo;
- l'altro mirante a suscitare una maggiore consapevolezza del ruolo svolto dalla costruzione testuale dell'Altro; sono intimamente legati dal fatto di nutrire un atteggiamento di sospetto nei confronti della
rappresentazione etnografica.
Per gli antropologi, tuttavia, la rappresentazione resta sempre e comunque la condizione di ogni possibile trasmissione di conoscenze acquisite "sul campo". Da un lato l'obiettivo dell'antropologo che svolge una ricerca sul campo è quello di fornire una rappresentazione di ciò che egli studia, dall'altro tale rappresentazione è un mezzo di conoscenza . i due livelli (comunicativo e cognitivo) della rappresentazione non sono facilmente distinguibili perché il nostro modo di percepire l'Altro si riflette immediatamente nel modo in cui comunichiamo la sua rappresentazione. Le "percezioni" che consentono all'antropologo di "rappresentare" i propri oggetti (la cultura) non sono mai "neutre", cioè nascono in situazioni prive di condizionamenti di vario tipo detti precomprensione. Quest'ultima consiste in rappresentazioni riconducibili a teorie etnografiche ed antropologiche formulate precedentemente ed in stereotipi, più o meno consolidati, che guidano in qualche modo la percezione che l'etnografo può avere di coloro con i quali ha a che fare. La precomprensione non agisce solo a livello di "strategie di localizzazione" ma anche sul piano dell'immagine di propri interlocutori che l'antropologo elabora sul campo e che, quasi sempre, finisce per ricomparire nel testo etnografico.
Allegorie e riflessività
Le questioni relative all'elaborazione delle rappresentazioni etnografiche sono apparse sempre più legate all'uso dei tropi, figure retoriche che (come le allegorie) consentono di produrre rappresentazioni. L'allegoria è (nell'ambito di una descrizione o di una narrazione) una figura retorica che può essere più o meno complessa ed articolata e che rende possibile rappresentare qualcosa con effetti di riconoscibilità immediata sul piano morale da parte del destinatario della narrazione o della descrizione stesse. In etnografia le allegorie consistono in rappresentazioni che sono evocative di una condizione umana condivisa, che il destinatario (il pubblico) "ritrova" nel racconto o descrizione che l'antropologo fa di una certa situazione o evento. L'etnografia è piena di allegorie ma le allegorie pastorali, che rinviano a supposte condizioni (allegoriche) di una nostra storia perduta, sono una deviazione dall'uso critico della rappresentazione etnografica in quanto tale perché mascherano pregiudizi, riproducono ideologie, reiterano stereotipi che tendono a rinnovare concezioni della storia e dei rapporti fra società, popoli e culture fondate su un "uso coloniale" della conoscenza.
La rappresentazione allegorica, che mira a costituirsi come tramite fra una condizione reale e quella di altri soggetti che in essa ritrovano le proprie condizioni, in antropologia si fonda sull'esperienza dell'antropologo. L'antropologo è un mediatore "interculturale" che, per costruire allegorie mediante le quali l'esperienza di un (o vari individui) individuo divenga moralmente significante per i destinatari del suo lavoro, deve sperimentare in prima persona ciò che spera di trasmettere agli altri.
Immedesimazione / empatia (essere l'altro) non comportano mediazione, cioè non danno la possibilità di far capire il grado della mia identificazione all'altro. Riflessività, invece, significa sentire come l'altro e ha bisogno di figure retoriche; essa richiama il concetto di risonanza ma la prima consente di articolare allegoricamente una descrizione e rappresentazione, la seconda comporta il riconoscimento degli stati emozionali inerenti alle enunciazioni di un altro soggetto.
Le "impasses" del postmodernismo etnografico
Grazie all'unione di sguardo riflessivo e forma allegorica della rappresentazione, l'etnografia guadagna profondità soggettiva ma abbandona una posizione "oggettivista" cioè l'idea che l'oggetto dell'antropologia possa consistere in una serie di elementi esterni all'osservatore, il quale avrebbe il compito di registrarli mediante i sensi ed ordinarli mediante concetti. Il rischio del soggettivismo, responsabile della concatenazione infinita di interpretazioni, è la dissoluzione del discorso antropologico in un dialogo dove informatori ed antropologi si confonderebbero. - Preoccupazione per significato, interpretazione, dialogo, polifonia, soggetto; - mancanza di fiducia nella realtà dei fatti e nella possibilità di pervenire ad un punto di vista oggettivo.
Sono i tratti distintivi del postmodernismo / malattia relativista. Il relativismo porta al razzismo debiologizzato che fa riferimento, appunto, al relativismo culturale estremizzante e considera le culture come universi distinti ed incomunicanti . apartheid, pulizia etnica. L'antropologia non deve cadere nel soggettivismo puro, né deve apparire come scienza che crede nell'oggettività del mondo; piuttosto deve aspirare ad essere un'attività intellettuale protesa verso un "accrescimento di senso" per la nostra ed altrui vita, pur facendo i conti con i propri limiti e le condizioni di conoscibilità.
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Dettagli appunto:
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Autore:
Viola Donarini
[Visita la sua tesi: "Domitia Longina, imperatrice alla corte dei Flavi"]
- Università: Università degli Studi di Milano - Bicocca
- Facoltà: Scienze della Formazione
- Corso: Antropologia
- Esame: Modelli teorici dell’antropologia
- Docente: Ugo Fabietti
- Titolo del libro: Antropologia culturale (l’esperienza e l’interpretazione)
- Autore del libro: Ugo Fabietti
- Editore: Laterza
- Anno pubblicazione: 2009
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