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La comparazione fra modelli


Uno degli strumenti fondamentali del lavoro è la comparazione, attuata già alla fine dell’800 dagli evoluzionisti britannici che posero nella stessa sfera le diverse popolazioni al fine di compararle tra di loro: ebbero il merito di conferire a ogni gruppo umano del pianeta lo statuto di umanità, affrancandolo dall’animalità o semianimalità che avevano prima, anche se li ponevano su diversi gradini della scala evolutiva. La comparazione aveva già la funzione di rivelare l’eventuale esistenza di tratti comuni nel genere umano, pur continuando a cercare regole, modelli, leggi che consentano di prevedere un comportamento; si viaggia continuamente tra il particolare e l’universale. Ci si è però chiesto se fosse il caso di porre dei confini alla comparazione, per esempio circoscrivendo le variabili da comparare a una determinata area geografica; serve, per alcuni, a comprendere meglio le specificità locali; porta però a una classificazione statica, con modelli e processi astratti. Non è stato ancora totalmente abbandonato, specialmente nelle prospettive dell’ecologia culturale, del materialismo culturale e dello strutturalismo. Cercare le specificità di ogni gruppo rivendicandone la particolarità per poi compararne alcuni aspetti per trovare una unità del genere umano è contradditorio solo in apparenza, dovuto dal fatto che bisogna tenere conto dei diversi posizionamenti e dei relativi punti di vista.
Un approccio etico tenta di ricondurre i fatti a delle regole comuni, fondandosi sul presupposto che esistano un sentire e un agire comuni alla base delle scelte umane, su cui è possibile trovare elementi di comparazione.
Un approccio emico invece è il perno attorno al quale ruotano gli approcci interpretativi (rendono difficile e inutile la comparazione di fatti che non sarebbero comparabili per gli attori locali, perché percepiti diversamente) e dialogici (prevedono l’abbandono di ogni pretesa di oggettività e puntano l’attenzione più sulla negoziazione tra ricercatore e nativo, la vera fonte dei dati).
La visione antropologica è caratterizzata dalla continua oscillazione tra un anelito universalista e una difesa del particolare, tensione che trova soluzioni intermedie, come l’adozione di una comparazione debole fondata non su dati presunti come assoluti, ma sulle somiglianza di famiglie che permettono, con una certa elasticità, di comparare ciò che intuitivamente riteniamo essere comparabile mantenendo un atteggiamento di utile tolleranza.

Tratto da IL PRIMO LIBRO DI ANTROPOLOGIA di Elisabetta Pintus
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