Il conflitto israelo-palestinese nei media
La questione israelo-palestinese rappresenta un caso sui generis per quanto riguarda il rapporto con l’informazione: è il conflitto più lungo del ‘900, dura da quasi 60 anni e aspetta ancora di essere risolto. In esso, i mass media costituiscono un teatro fondamentale dello scontro.
Ciò che è in ballo nel conflitto di informazione tra israeliani e palestinesi è vedere affermato il proprio diritto ad abitare la Palestina e ad edificarvi il proprio Stato, negando contemporaneamente le identiche aspirazioni dell’altro: per questo motivo, il conflitto di informazione tra israeliani e palestinesi raggiunge livelli di polemica particolarmente alti.
Le narrazioni dei 2 popoli tuttavia non dispongono di una forza simmetrica: la prima fase del conflitto di informazione consiste nel tentativo dei palestinesi di acquisire visibilità, tentativo ostacolato dalla negazione israeliana della loro stessa esistenza come popolo ⇒ la forza della narrazione israeliana, unita alla condizione apolide dei palestinesi, fa sì che per molti anni i media raccontino di un conflitto tra arabi e israeliani, mentre il problema palestinese non viene affatto considerato. Poiché l’obiettivo nell’arena mediatica internazionale è apparire come le vittime del conflitto, questa visione è particolarmente favorevole ad Israele, perché lo raffigura come un piccolo Stato assediato da stati nemici più grandi che si ostinano a rifiutare il suo diritto ad esistere.
Questa prima immagine comincia tuttavia ad incrinarsi a partire dagli anni ’50, quando i palestinesi cominciano lentamente a riprendersi e a riorganizzarsi. A rappresentarne le sorti c’è una figura simbolo: il fedayn, che ricerca visibilità inaugurando una serie di imprese terroristiche spettacolari, tra cui la più nota ha luogo nel 1972, in occasione delle Olimpiadi di Monaco, di cui sfrutta l’enorme copertura mediatica. Questo tipo di azioni ha un duplice effetto:
1 − favorisce l’associazione della causa palestinese con il fenomeno del nuovo terrorismo internazionale, nocendo alla sua immagine
2 − permette di tenere in vita il problema presso l’opinione pubblica internazionale, in una situazione in cui rischiava di scomparire.
Dal punto di vista mediatico, l’Intifadah palestinese del 1987 rappresenta un caso eccezionale, dal momento che porta a compimento la “palestinizzazione” del conflitto, reinquadrandolo definitivamente nei termini di uno scontro prima di tutto tra israeliani e palestinesi.
Le autorità israeliane si rendono subito conto del pericolo rappresentato dai media ⇒ con la motivazione che la presenza delle telecamere potrebbe spingere i palestinesi ad intensificare le violenze, viene chiuso il Palestinian Press Service e alcune aree più calde vengono interdette. In seguito, però, ci si rende conto che vietare l’accesso dei giornalisti nei luoghi degli scontri danneggerebbe l’immagine di Israele ancora più gravemente.
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Sono i palestinesi a detenere l’iniziativa e a gestire meglio il fattore informazione. La figura che ora rappresenta la causa palestinese sul palcoscenico mondiale è lo shahid = il martire. NB: non si tratta del kamikaze imbottito di esplosivo che farà la sua comparsa negli anni ’90; durante la prima intifadah i martiri sono gli atfal al hijar (= i ragazzi delle pietre).
L’intifadah corrode definitivamente l’immagine del soldato israeliano coraggioso e giusto, per ridurlo a rude ed aggressivo strumento di un’occupazione militare. All’interno della società israeliana da un lato comincia a farsi strada la consapevolezza della responsabilità morale dell’occupazione, dall’altro ci si rende conto che la soluzione alla questione non può essere trovata solo nell’uso della forza.
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Il risultato è l’inizio di una nuova stagione del conflitto, che si apre con gli accordi di Oslo del 1993, che sanciscono il riconoscimento reciproco tra lo Stato di Israele e l’OLP. MA questo periodo è segnato da un nuovo distacco tra l’informazione offerta dai media e la realtà che si va creando sul territorio: per i palestinesi, le speranze di sovranità e di miglioramento della situazione economica si rivelano presto un miraggio. Di fatto, il vero controllo resta nelle mani di Israele.
Se esiste un conflitto di informazione sul processo di pace, è quello intentato dagli estremisti per cercare di farlo fallire: la loro opposizione “distrae” i media dai problemi reali e impedisce di chiedersi se il processo di pace, così come era stato delineato, rappresenti la giusta soluzione per risolvere la questione.
Il 5 luglio 2000, il presidente americano Bill Clinton chiama Barak e Arafat per invitarli a negoziare a Camp David. L’impegno nei preparativi di natura comunicativa acquista un rilievo ancora maggiore se si considera che i negoziati vengono tenuti rigorosamente a porte chiuse, imponendo un blackout totale dell’informazione: tutti i partecipanti firmano un documento, impegnandosi a non rivelare i contenuti delle trattative per 1 anno.
Alla fine dei negoziati, l’accordo non viene raggiunto ⇒ in seguito al “no” di Arafat, scattano i piani che Barak aveva preventivamente elaborato. Parallelamente, vengono fatte pressioni sugli americani perché appoggino questa versione.
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Cominciano a delinearsi i “miti di Camp David”:
1 − la colpa del fallimento viene attribuita esclusivamente ai palestinesi
2 − le offerte israeliane vengono dipinte come estremamente generose, oltre le quali nulla si poteva più concedere
3 − il rifiuto palestinese viene legato soprattutto alla questione di Gerusalemme, cominciando ad individuare nella religione la principale causa di attrito tra i 2 popoli.
I media accettano queste tesi, rafforzandole, rendendole verità attraverso la loro continua e acritica ripetizione e, soprattutto, non vengono mostrate mappe che chiariscano la reale entità delle offerte israeliane.
I palestinesi reagiscono in modo sorprendentemente passivo di fronte al rapido dipanarsi della campagna di disinformazione, in quanto sono convinti di non poter sfidare la narrazione di Clinton e Barak. Solo un anno più tardi, quando scade l’obbligo a non rivelare i contenuti dei negoziati, cominciano ad emergere alcune informazioni che costringono a rimettere in discussione il significato del vertice. Ma è ormai troppo tardi ⇒ non riescono a scalfire l’interpretazione dominante che ormai si è imposta nell’informazione di massa.
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Questa atmosfera mediatica prefigura già un nuovo conflitto e la scintilla si ha il 28 settembre 2000, quando Ariel Sharon visita l’Haram al Sharif. Scoppia la seconda intifadah, che riceve immediatamente un’intensa copertura mediatica.
Nei primi mesi della rivolta, la sfida pone Israele di nuovo in difficoltà: vista la violenza sproporzionata con cui l’esercito cerca di reprimere i disordini, i racconti mediatici sembrano restituire una replica della prima intifadah. Non passa molto tempo, però, che questa prima immagine comincia a cambiare: la seconda intifadah è molto più militarizzata e violenta.
Inoltre, anche il fattore religioso sembra assumere un rilievo maggiore ⇒ in tutto il mondo arabo si svolgono grandi manifestazioni a sostegno della causa palestinese, mentre al Jazeera contribuisce a risvegliare la questione nella coscienza araba.
Con l’avvento dello shahid, le conseguenze più negative degli accordi di Oslo irrompono nel conflitto e i mass media occidentali si trovano impreparati a spiegare l’escalation di violenza. Lo shahid, il martire suicida, appartenente al Jihad islamico, ad Hamas e alle Brigate Martiri di al Aqsa (una filiazione di al Fatah), diviene in breve tempo il protagonista assoluto dell’intifadah, il vero rappresentante della volontà palestinese presso l’opinione pubblica occidentale. Ma se le figure precedenti (il fedayn e il ragazzo delle pietre) contenevano in sé la speranza ottimistica di raggiungere l’autodeterminazione, lo shahid della seconda intifadah fa al contrario esaltare, insieme al fanatismo religioso, l’odio verso il nemico.
Gli attentati dell’11 settembre forniscono ai media un nuovo contesto politico-culturale per ripensare il ruolo e il significato dei martiri suicidi:
1 − i palestinesi si rendono conto che tale evento si ripercuoterà inevitabilmente sul conflitto ⇒ Arafat si affretta a condannare l’attentato
2 − MA sono gli israeliani a comprendere fino in fondo la portata del cambiamento ⇒ si tenta di assimilare il terrorismo palestinese al terrorismo internazionale e allo stesso tempo di associare la posizione di Israele a quella degli USA, in quanto oppositori principali del nuovo nemico globale ⇒ dal punto di vista mediatico, l’identità del popolo palestinese dopo l’11 settembre torna a confondersi e a sparire in una più ampia identità, questa volta di natura islamica, più che panaraba.
I media in un primo tempo non sposano, e del resto, non sposeranno mai pienamente, le tesi israeliane. Tuttavia, la copertura mediatica della seconda intifadah è in gran parte priva di un’adeguata contestualizzazione storica che spieghi lo svolgersi degli eventi attuali (ad es. la questione dell’occupazione viene nominata a stento).
L’isolamento dei palestinesi è evidente nelle reazioni mediatiche alla morte di Yasser Arafat, avvenuta l’11 novembre 2004 a Parigi, freddamente saltata come una nuova occasione per controllare il terrorismo palestinese e riprendere il processo di pace, ignorando le cause politiche e la frustrazione palestinese che avevano condotto allo scoppio dell’intifadah.
Ancora più significativo è il ritiro da Gaza, con lo smantellamento di 21 colonie, effettuato nell’agosto del 2005: i media si focalizzano sulla drammatica frattura interna ad Israele, soffermandosi solo di rado su ciò che quei coloni avevano significato per la popolazione palestinese in 40 anni di occupazione.
La vittoria di Hamas alle elezioni del 25 gennaio 2006 per il Consiglio legislativo palestinese porta a compimento il processo di delegittimazione: nei media, l’evento viene descritto come un incubo che diviene realtà = elezioni democratiche che portano alla ribalta l’islam radicale. Da ora in poi, la delegittimazione dei palestinesi non è più messa in dubbio, non ha più bisogno di essere costruita.
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