Enduring freedom nei media americani
Il 7 ottobre 2001 inizia l’offensiva contro il regime talebano in Afghanistan. La strategia di pubbliche relazioni però questa volta rompe con la tradizione che si era andata formando dopo la guerra delle Falkland/Malvinas: non ci sono a disposizione mesi di preparazione e, se una campagna di informazione non è necessaria per dipingere Osama bin Laden e il mullah Omar come i cattivi, tutt’altra cosa è far accettare i bombardamenti sui civili.
Come se non bastasse, la guerra in Afghanistan segna l’affermazione definitiva di al Jazeera; la novità per gli USA appare in questa fase particolarmente scomoda: la sfida che si pone alla propaganda americana è di cambiare in positivo l’immagine degli USA, proprio mentre la sua politica nella regione si fa sempre più aggressiva.
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La guerra in Afghanistan è accompagnata dal lancio di volantini e da casse di viveri. L’operazione, inizialmente chiamata “crociata”, viene ribattezzata Enduring Freedom, per allontanare l’impressione di un conflitto interreligioso.
Inoltre, la guerra al terrorismo viene presentata come una guerra per la democrazia contro l’oppressivo regime talebano, una guerra di liberazione del popolo afgano ⇒ l’attenzione mediatica viene dirottata sull’imposizione de burqa alle donne, simbolo della discriminazione sessuale.
Per il Pentagono controllare i media americani sulla scia patriottica post 11 settembre è abbastanza semplice: i giornalisti accettano i pool e gli effetti delle bombe a grappolo sui civili sono completamente assenti nelle televisioni occidentali. MA questa volta c’è al Jazeera a mostrare l’altra faccia della medaglia, permettendo ai portavoce dei talebani di contrastare la propaganda americana con la propria.
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Gli USA riescono con un certo successo a gestire l’informazione in Occidente, ma cominciano a perdere la sfida più importante = vincere la guerra di narrazioni nel resto del mondo, prima di tutto in Medio Oriente.
Nell’autunno del 2002 comincia la campagna di informazione che apre la strada all’invasione dell’Iraq: l’esportazione della democrazia si fonde con la lotta al terrorismo e con il mantenimento dell’ordine internazionale come motivazione per un intervento armato ⇒ emerge l’opzione inedita della “guerra preventiva”. La Casa Bianca non ha bisogno di vendere la guerra al popolo americano: i sondaggi riferiscono che la stragrande maggioranza, nell’atmosfera post-11 settembre, sostiene con forza la deposizione del regime di Saddam. Il problema è che tale appoggio sembra insufficiente senza l’approvazione dell’ONU ⇒ la campagna di informazione si basa ancora una volta sul paradigma della “guerra inevitabile”. I media si concentrano sulla capacità degli USA di provare al mondo le proprie ragioni, senza verificarne la fondatezza.
La guerra inizia il 21 marzo 2003, senza l’avallo dell’ONU: rispetto alla guerra in Afghanistan, la coalizione che gli USA riescono a mettere in piedi è molto più esigua, segno che l’intervento resta fino all’ultimo estremamente controverso. L’ultima guerra del Golfo è la guerra dei media globali: se nel 1991 il conflitto era stato seguito da tutto il mondo principalmente attraverso la CNN, ora la televisione di Turner è affiancata da altre potenti televisioni satellitari: Fox News, al Jazeera, al Arabiya, Abu Dhabi, al Hayat/LBC.
È anche la prima guerra in cui internet gioca un ruolo non più trascurabile.
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Tutto ciò porta il volume delle informazioni sulla guerra ad un livello finora sconosciuto, costringendo gli USA ad adeguarvi le proprie strategie di comunicazione.
Inoltre, i media non sono più disposti a tollerare i pool e la censura della guerra del 1991 ⇒ la pianificazione dell’informazione diviene più flessibile e si sviluppa in totale armonia con i criteri della guerra psicologica e della comunicazione in campo strategico-militare: lo stile di guerra si è affermato secondo il modello C4ISR (comando, controllo, comunicazioni, computer, intelligence, sorveglianza e riconoscimento) che assicura il dominio dell’informazione alla macchina bellica americana.
Nel campo mediatico, questa logica comporta non tanto sopprimere le critiche e il dissenso, quanto ad occuparsi delle informazioni che ostacolano concretamente gli obiettivi sul campo ⇒ si può arrivare a distruggere le fonti considerate nemiche, come nel caso del bombardamento nel 2001 degli uffici di al Jazeera, che concedeva interviste ai portavoce talebani.
Ma, prima di tutto, significa promuovere l’informazione “amica”: è a questo scopo che Bryan Whitman, assistente del segretario alla Difesa e responsabile della pianificazione dell’informazione, inventa la formula dei giornalisti embedded = i singoli reporter possono accompagnare le unità dell’esercito, scegliendo se indossare l’uniforme o meno, condividono la vita quotidiana, i pericoli, la condizione di stress dei soldati, identificandosi inevitabilmente con loro. La copertura dei giornalisti embedded rispetto agli unilaterals è più favorevole ai militari americani, ma sopratutto è costituita di singoli episodi di cronaca ⇒ manca uno sguardo generale: proprio per il fatto di essere “dentro” alla guerra, come Peter Arnett nel 1991, sono incapaci di capire e di riportare il significato di ciò che accade intorno a loro.
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Se stavolta non è possibile seguire un testo già scritto come nel 1991, l’obiettivo sembra essere quello di sovraccaricare i media con un mare di informazioni, in cui lo spettatore perde l’orientamento e la capacità di dare un senso alle cose ⇒ la guerra diviene più che mai infotainment = informazione-intrattenimento che appare ovunque nel palinsesto televisivo, tracimando dai tradizionali spazi dell’informazione professionale.
In questo contesto informativo, il Pentagono si preoccupa di costruire isolati eventi mediatici, attraverso i quali si cerca di suggerire ai media alcuni percorsi narrativi.
ESEMPIO: l’operazione di liberazione del soldato Jessica Lynch è condotta nello stile di un action movie di Hollywood. Più tardi, un documentario della BBC rivela attraverso interviste al personale medico dell’ospedale che l’operazione era stata in gran parte una montatura.
ESEMPIO: l’abbattimento della statua di Saddam Hussein è l’evento che chiude mediaticamente il conflitto: le immagini mostrano una folla di iracheni giubilanti che tirano giù la statua del dittatore. Anche in questo caso, l’episodio si rivelerà una montatura: alcuni scatti da posizioni più distanti mostrano che gli iracheni non sono più di un centinaio, circondati da un cordone di carri armati e di marines.
Sicuramente, con la guerra in Iraq viene portato a termine il “paradigma della guerra in diretta”, caratterizzata da:
1 − ricerca della “giusta causa”, per cui i media sono usati per creare il consenso interno all’intervento
2 − demonizzazione del nemico, che aggrava la contrapposizione noi vs. loro
3 − censura alla fonte = viene impedito ai giornalisti l’accesso al campo di battaglia e l’avvicinamento alla realtà della guerra
4 − spettacolarizzazione della guerra.
Nella guerra dell’Iraq del 2003 si assiste alla compenetrazione tra bellico e mediatico, fino quasi all’isomorfismo, un modello di analisi che si adatta bene al rapporto tra i media e le operazioni militari condotte sotto la guida degli USA e che si caratterizza per:
1 − la costruzione dell’attesa prima dell’evento, che orienta il pubblico rispetto ai ruoli dei buoni e dei cattivi
2 − lo scatenarsi del conflitto nel prime time televisivo americano
3 − la durata non eccessiva delle operazioni e la loro conclusione certa, perché, in caso contrario, lo spettatore potrebbe stancarsi ⇒ si perderebbe in termini di efficacia e in profittabilità economica.
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La guerra oggi deve essere fast and light, rapida ed indolore: conviene agli strateghi, ma anche ai media.
La guerra in Iraq è davvero una guerra globale = le sue ripercussioni vengono valutate da ogni paese secondo i propri interessi. Persino l’Europa tende ad offrire una visione non omogenea del conflitto.
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Ne emerge un effetto Rashomon = la stessa storia viene raccontata da angolature differenti, con punti di vista diversi e attraverso culture differenti ⇒ non esiste una sola guerra, ma più guerre, che spesso hanno molto poco in comune e il mito dell’obiettività del giornalismo occidentale si incrina di fronte alla sempre maggiore visibilità di molteplici, ed ugualmente valide, verità.
Naturalmente a presentare la narrazione più distante da quella americana sono le televisioni satellitari arabe ⇒ muore il monopolio dell’informazione occidentale e per la propaganda tradizionale si profila una sfida completamente nuova.
A peggiorare le cose c’è l’avvento di internet, che favorisce la segmentazione del pubblico e la moltiplicazione dei flussi di informazione.
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Si apre un dibattito che pone sotto accusa il giornalismo americano post-11 settembre: i media hanno mancato al loro compito di osservare e raccontare la realtà in modo indipendente. Ancora una volta, la loro tendenza a concentrarsi sulle dichiarazioni ufficiali e a non interpretare in modo autonomo la realtà ha trasformato giornali e televisioni in una passiva cassa di risonanza delle strategie di propaganda.
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