La guerra in Iraq e i media
Nel settembre 1990 viene creata una task force all’interno dell’USIA per la gestione del coalition building. L’Inter-Agency working group on public diplomacy in Iraq era composto da 20 persone (compresi membri dell’USIA ed esperti d’area) ed era diretto da William Rugh, vice-direttore dell’USIA.
Durante la crisi del 1991, Rugh agì da vero esperto:
1 − non demonizzò eccessivamente Saddam Hussein
2 − curò con attenzione il contenuto dei messaggi di Bush: da un lato, bisognava evitare qualunque errore o pregiudizio culturalista, dall’altro fece in modo di usare gli stessi discorsi di Saddam contro il dittatore
3 − continua insistenza sulla coalizione, sulla sua forza, la sua eterogeneità e la sua legittimità contro un solo irresponsabile
4 − utilizzo degli uomini dell’USIA e della loro dislocazione strategica nella regione, in una vera e propria “caccia al consenso”: le opinioni pubbliche nei punti nevralgici del Medio Oriente erano costantemente monitorate, tradotte in punti specifici dagli officer del Dipartimento di Stato e poi fatte circolare in tutto il mondo
5 − venne girato un documentario, A line in the sand, sulla coalizione e la sua forza, ma che faceva ampio uso di immagini care al mondo e alla cultura araba, per non parlare del suo forte potenziale, essendo interamente in lingua araba
6 − venne curata nei minimi dettagli la figura di Bush, proposto come l’uomo della diplomazia, l’uomo che vuole evitare fino all’ultimo il conflitto.
Quando nell’agosto del 1991, l’Iraq di Saddam Hussein invade il vicino Kuwait, cominciano i preparativi per la realizzazione di quella che deve apparire come la “guerra perfetta”: le nuove tecnologie belliche devono permettere di colpire soltanto le infrastrutture senza coinvolgere le popolazioni civili, ma, soprattutto, devono garantire l’incolumità dei soldati americani ⇒ bisogna evitare il ripetersi del body-bag effect.
Quando l’Iraq invade il Kuwait non esiste un largo consenso a favore dell’intervento ⇒ per risolvere la situazione, viene messa in moto un’intensa campagna di marketing, assoldando per la prima volta agenzie di pubbliche relazioni, con il compito di “vendere la guerra” al pubblico americano.
Per prima cosa, Saddam Hussein viene demonizzato come leader inviso al mondo arabo e al suo stesso popolo, psicopatico e sanguinario.
Ma ancora una volta sono le notizie di human interest a giocare il ruolo principale: l’organizzazione dei Citizens for a free Kuwait, finanziata dal governo kuwaitiano in esilio, firma un contratto con la Hill&Knowlton, un’agenzia di pubbliche relazioni, per promuovere l’intervento americano contro l’Iraq. Tra le storie curate dall’agenzia, la più riuscita è senz’altro quella dei soldati iracheni che, introdottisi in un ospedale del Kuwait, rovesciano le incubatrici, provocando la morte dei bambini. In ottobre, Nayirah, una ragazza kuwaitiana, viene invitata come testimone della vicenda.
Solo 2 anni più tardi si scoprirà che Nayirah era la figlia dell’ambasciatore del Kuwait negli USA, ingaggiata dalla Hill&Knowlton. Ma nel frattempo, la giustificazione del conflitto era stata ridefinita come una questione morale, allontanando l’idea che l’obiettivo fosse il petrolio, come si dichiarava nelle manifestazioni pacifiste.
Prima di far partire le operazioni, i comandi militari utilizzano i media per ingannare l’esercito iracheno: i giornalisti vengono lasciati più liberi di raccontare i preparativi sul mare, mentre quelli nel deserto ricevono meno attenzione ⇒ l’impressione generale è che l’attacco avverrà via mare.
Dal momento che la guerra di terra presenta maggiori difficoltà rispetto a quella aerea, fin dal primo giorno dell’offensiva viene imposto un totale blackout sull’informazione. Solo quando ci si accorge che le operazioni vanno meglio del previsto,si allenta la censura e alcuni pool di giornalisti vengono autorizzati a seguire le truppe.
La strategia di gestione dell’informazione ricalca quella della guerra delle Falkland/Malvinas; ma questa volta c’è il deserto e i giornalisti dispongono di tecnologie molto più avanzate, che li rendono totalmente autonomi quanto alla trasmissione dei pezzi.
⇓
Il problema diviene come controllare il contenuto dei pezzi spediti dai giornalisti. A questo scopo, viene elaborato un complesso sistema di gestione dell’informazione. Il controllo viene esercitato su 2 livelli:
1 1. tutti gli articoli e i servizi vengono sottoposti a “revisione di sicurezza” = non ci si può soffermare sui dettagli logistici delle operazioni e sulla consistenza delle truppe, così come su qualsiasi questione di rilevanza strategica
2 2. si limita l’accesso dei giornalisti alle zone di guerra, per evitare ogni contatto con la battaglia. I giornalisti più fortunati (in genere americani, inglesi e francesi) vengono integrati nei gruppi che hanno accesso alle truppe accampate nel deserto, sempre sotto l’attenta supervisione di ufficiali che scelgono i reparti da intervistare, tengono i briefing e controllano le riprese.
I meno fortunati vengono invece sistemati negli alberghi di lusso in Arabia Saudita: nasce così il modello del “giornalismo da piscina” = i reporter poi ironicamente soprannominati hotel warrior) presenziano alle numerose conferenze stampa che il comando americano tiene ogni giorno. Viene inoltre distribuito materiale in gran quantità, a cominciare da fotografie televisive “simulate” e disegni a mano che rappresentano gli obiettivi colpiti e quelli da colpire.
La reazione più sincera alle restrizioni proviene da alcuni giornalisti, gli unilaterals, che decidono di muoversi indipendentemente nel deserto iracheno, una scelta che comporta pericoli sufficienti a far desistere i meno coraggiosi.
⇓
Nel primo mese di guerra, che consiste quasi esclusivamente nei bombardamenti aerei, il Pentagono riesce a ritagliare secondo le proprie esigenze la rappresentazione mediatica degli eventi. E intanto, abbondano le storie sull’ecoterrorismo di Saddam, che brucia i pozzi di petrolio o ne rilascia il contenuto nelle acque del Golfo Persico, con pesanti effetti sulla fauna locale: la CNN mostra le immagini, poi rivelatesi false, dei cormorani inzuppati di petrolio.
Grande enfasi viene poi posta sugli armamenti intelligenti, il veicolo principale per convincere l’opinione pubblica che è possibile combattere e vincere una guerra senza gli orrori da cui è solitamente accompagnata. Il tormentone propagandistico sulla sfida tra gli obsoleti Scud iracheni e i precisi Patriot americani fa emergere perfettamente il confronto tra un decadente e sanguinario regime dispotico e la potenza crescente degli USA. Ancora una volta, solo più tardi verrà rivelata la verità e cioè che gli armamenti intelligenti costituivano il 7% del totale, visti i costi che comportavano, e che la maggior parte delle bombe aveva mancato il bersaglio.
Anche Saddam Hussein nel 1991 crede nei miti del Vietnam ⇒ invita Peter Arnett della CNN a Baghdad e gli chiede di raccontare gli effetti dei bombardamenti sui civili e di coprire la guerra dal punto di vista di chi la subisce. Più tardi, il corrispondente della CNN viene raggiunto anche da John Simpson della BBC e da Brent Sadler della ITN: i 3 reporter lavorano a Baghdad sottoposti alla censura e al regime iracheno che tenta di utilizzarli a proprio favore.
Ma, a dispetto di Saddam, la televisione non si rivela un alleato della causa irachena: strategia militare e strategia televisiva sono in perfetta sintonia sul fronte degli alleati, dove i piani di battaglia sono elaborati tenendo conto delle necessità produttive della televisione. Eppure la spettacolarità dell’evento è inversamente proporzionale alla sua visibilità: sebbene sia la prima guerra in diretta, la guerra del Golfo del 1991 è anche paradossalmente la prima guerra senza immagini: la CNN riprende il cielo notturno di Baghdad percorso dai tracciati luminosi della contraerea, dalle scie di missile cruise e dai bagliori delle esplosioni. Il Pentagono fornisce alle televisioni immagini ricavate dai computer dei piloti e dalle telecamere collocate nelle ogive delle bombe sganciate dagli aerei.
⇓
La guerra perde la tradizionale forma del duello per acquisire quella di un videogame ⇒ ne risulta un conflitto asettico e professionalizzato, che l’assenza completa della morte rende perfettamente adatto alla visione del pubblico a casa.
D’altra parte, però, il corrispondente televisivo non ha più la capacità di dare un senso agli eventi, di spiegare cosa sta succedendo ⇒ si delinea quello che Scurati chiama il “paradosso dello spettatore totale” = il giornalista sta nella stessa posizione dello spettatore, è incapace di informare e tanto meno di interpretare: può solo osservare.
⇓
Alla fine, il ricordo della guerra irachena è quello di un conflitto in cui la morte non compare, anche se è costata la vita a qualche centinaio di americani e a decine di migliaia di iracheni. Una “guerra perfetta”, come nelle intenzioni del Pentagono. Come ha scritto Castellina: “La guerra è stato un buon esempio del modo di fornire informazione delle nostre società: non scarsezza di notizie, ma anzi eccesso; non molta censura, ma anzi un flusso continuo di immagini in diretta dal fronte, tutte però, giustapposte una all’altra, private del loro contesto, in assenza di una spiegazione di quanto era accaduto prima e nel passato, di quanto accadeva in contemporanea ma altrove, dell’analisi delle possibili conseguenze future dell’accaduto. Schegge di emozione e mai elementi per un’analisi, mai un criterio di interpretazione capace di consentire una selezione delle informazioni ricevute, una loro collocazione gerarchica e dunque una possibilità di giudizio. Questa vera e propria entropia dell’informazione, questa valanga di smozzicate e indecifrabili notizie non fornisce, come ovvio, maggiore sapere, ma, al contrario, solo voluta confusione”.
Il ruolo della pubblicità nelle strategie terroristiche sembra emergere chiaramente alla fine degli anni ’60, quando si affaccia sulla scena il terrorismo internazionale, le cui azioni da questo momento aumentano ininterrottamente ⇒ il terrorismo diventa per la prima volta un problema politico rilevante.
L’emergere della globalizzazione delle comunicazioni crea un palcoscenico inedito per il terrorismo internazionale, è la componente mediatica che viene ritenuta da molti la conditio sine qua non del nuovo terrorismo internazionale: la spettacolarità, la drammaticità delle azioni terroristiche si sposano perfettamente con i valori notizia dei media, costringendoli a dedicare ampi spazi al fenomeno.
Da queste considerazioni nasce la “teoria del contagio” = esisterebbe una precisa relazione tra il crescente impatto del terrorismo negli anni ’70 e lo sviluppo dei media ⇒ se il terrorismo non ricevesse copertura mediatica, non avrebbe motivo di esistere.
L’ipotesi di un rapporto simbiotico tra media e terrorismo spinge i governi ad affrontare il problema in vari modi:
1 − negli USA, i media vengono aspramente criticati,
0 perché forniscono visibilità ai terroristi
1 vengono accusati a volte di ostacolare le trattative ufficiali stabilendo contatti informali con gli esecutori degli attentati, altre volte di creare un generale clima di urgenza, che si traduce in pressione sulle autorità per “fare qualcosa”.
2 − in Europa, dove il terrorismo colpisce all’interno del territorio nazionale, l’intervento dello Stato è più incisivo. Il caso più emblematico è quello della Gran Bretagna nel confronto con l’IRA dai primi anni ’70: il governo, fin dall’inizio, chiarisce di non aspettarsi dai media un atteggiamento imparziale sulla faccenda. Tentando di risolvere definitivamente la situazione, nel 1988 il governo inglese intervenne con il Broadcasting Ban = vieta sia la trasmissione “diretta” di dichiarazioni rilasciate da membri di alcune organizzazioni dell’Irlanda del Nord, sia la rappresentazione dei punti di vista di coloro che simpatizzano con la loro causa. Ma presto, gli obiettivi non vengono raggiunti pienamente, perché presto i giornalisti riescono ad aggirare il divieto: poiché è vietato trasmettere direttamente la voce delle persone interdette, vengono mandate in onda le immagini sostituendo l’audio originale con sottotitoli o il doppiaggio di un attore. Come se non bastasse, viene inserito un avviso che informa i telespettatori della presenza della censura governativa, mettendola inevitabilmente in ridicolo.
⇓
Prima di un conflitto, i media possono essere utilizzati come strumenti di propaganda e di incitamento all’odio, creando le condizioni che rendono possibile e pensabile il ricorso alla violenza.
Ma vale anche il contrario: i mass media possono essere utilizzati dagli attori politici per scopi “positivi”, come la prevenzione, la risoluzione e la trasformazione dei conflitti.
Questo utilizzo innovativo degli organi di informazione va collegato all’ampio mutamento dei meccanismi che regolano le relazioni internazionali nella seconda metà del XX secolo, quando emerge una nuova diplomazia. I media non hanno solo il potere di avviare negoziati, ma possono anche incidere su di essi, creando un clima di aspettativa che può contribuire a mettere la parola fine ad un conflitto.
E tuttavia, l’utilizzo degli organi di informazione per questi scopi, pone anche alcuni problemi: i giornalisti appaiono estremamente dipendenti dall’agenda e dalla presentazione dei fatti offerta dai leader politici, anche considerando che tale dipendenza è funzionale alla risoluzione di un conflitto.
Continua a leggere:
- Successivo: L'11 settembre e i media
- Precedente: La CNN e il genocidio in Rwanda
Puoi scaricare gratuitamente questo appunto in versione integrale.