I media e i conflitti
I media e i conflitti: dalla guerra di Crimea alla “guerra globale permanente”
La guerra di Crimea del 1854, rappresenta il primo sforzo organizzato da parte dei mass media di riferire in modo sistematico un conflitto alla popolazione civile.
La dichiarazione di guerra alla Turchia genera un tale entusiasmo negli inglesi che il direttore del Times decide di inviare al fronte un giornalista professionista per rispondere alla crescente domanda di informazioni dell’opinione pubblica. La scelta cade su William Howard Russel, che verrà celebrato successivamente come il primo corrispondente di guerra di tutti i tempi. I suoi resoconti sono però molto duri nei confronti dell’esercito inglese ⇒ si creano le prime tensioni tra stampa indipendente da una parte e potere politico e militare dall’altra, che arrivano perfino ad incidere sulle strategie di guerra.
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Il governo inglese tenta di controbilanciare le narrazioni della stampa utilizzando un nuovo mezzo: la fotografia di Roger Fenton ⇒ l’immagine della guerra che ne emerge è completamente opposta a quella descritta da Russel.
Verso la fine del conflitto, l’imbarazzo dell’esercito inglese nei confronti delle critiche della stampa porta all’emanazione delle prime misure di controllo e censura dell’informazione di guerra, creando un importante precedente storico.
Tuttavia, è solo nel corso del ‘900 che si delineano le caratteristiche del moderno rapporto tra media e conflitti: numerose innovazioni tecnologiche modificano il modo di esperire lo spazio e il tempo, trasformando radicalmente sia il modo di fare la guerra sia il ruolo dei mezzi di comunicazione. Le invenzioni nel campo delle comunicazioni e dei trasporti portano ad un primo processo di globalizzazione, in cui la stampa contribuisce a dare un ordine e un senso ad un mondo in cui le informazioni cominciano ad essere troppo numerose ⇒ il suo ruolo diventa sempre più rilevante nei processi di costruzione delle identità, individuali e collettive.
Le trasformazioni tecnologiche e industriali inaugurano anche un nuovo tipo di conflitto bellico: la guerra totale. La guerra diventa un fenomeno di massa, che non riguarda più soltanto i soldati di professione e i cui obiettivi sono illimitati ⇒ le risorse di una nazione (militari, economiche, industriali, umane, psicologiche) devono essere mobilitate per ottenere la vittoria ⇒ la distinzione tra civili e militari diviene più sfumata, in quanto i primi sono chiamati a partecipare attivamente allo sforzo bellico, aumentando la produzione industriale e accettando i pesanti sacrifici di un’economia di guerra.
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È questa “democratizzazione della guerra” ad imporre un nuovo rapporto tra mass media e conflitti, che deriva dall’emergere di 2 necessità contrapposte e tuttavia spesso coincidenti:
1 1. i governi hanno bisogno della propaganda per mobilitare le rispettive popolazioni, creare consenso e mantenere alto il morale
2 2. i singoli individui hanno bisogno di dare un senso ad un evento che richiede enormi sacrifici, sia dal punto di vista umano sia dal punto di vista materiale.
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Il ruolo della comunicazione non è più ristretto al solo campo di battaglia, ma si estende al fronte interno.
Il profondo legame tra mass media e guerre deriva anche da ragioni di natura commerciale: la guerra offre ai giornali un prezioso materiale narrativo da vendere al pubblico e, allo stesso tempo, genera una domanda di notizie particolarmente alta.
Dalla prima guerra mondiale in poi, si è venuto a creare un legame inestricabile tra mass media e guerra, fondamentalmente per 2 motivi:
1 1. il rapporto che esiste tra le tecnologie di guerra, che permettono di individuare, vedere e colpire il nemico, e le tecnologie mediatiche: ad ogni tipo di arma (⇒ di guerra) corrisponde un modo particolare di percepire e di narrare l’evento bellico ⇒ la logistica della guerra cambia con la logistica della percezione e questo apre anche la possibilità di raccontare in nuovi modi la realtà della guerra.
2 2. il rapporto che esiste tra guerra e narrazione: “non vi è guerra senza rappresentazione, non arma senza mistificazione psicologica. Le armi sono non soltanto strumenti di distruzione, ma anche strumenti di percezione”.
Il ruolo dei media nei conflitti cambia a seconda del contesto politico, delle risorse, delle abilità e del potere politico dei giocatori coinvolti, della relazione tra la stampa e ogni singolo protagonista, dello stato, dell’opinione pubblica, dell’abilità dei giornalisti ad avere accesso agli eventi del conflitto e, soprattutto, il ruolo dei mass media dipende dai “fatti”.
Gli studi fatti sul rapporto tra media e conflitti possono essere divisi in 3 aree di interesse:
1 1. propaganda, strategie di controllo dell’informazione e meccanismi di produzione delle notizie ⇒ teoria della costruzione del consenso di Herman e Chomsky: questa teoria parte da una prospettiva di economia politica della comunicazione, che tende a decentrare i media, considerando i sistemi mediatici come parte integrante dei fondamentali processi economici, politici, sociali e culturali della società. La teoria della costruzione del consenso sottolinea la capacità dei governi, soprattutto nelle democrazie occidentali, di influenzare i prodotti dei giornalisti e la tendenza dei giornalisti sia ad autocensurarsi sia a percepire gli eventi globali attraverso le lenti culturali e politiche delle loro rispettive elite politiche e sociali ⇒ è una teoria alquanto critica, in quanto cerca di denunciare le carenze e i difetti del sistema, al fine di migliorarlo.
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Secondo questo approccio, i media non hanno sostanzialmente un ruolo autonomo, la cui copertura è decisamente poco critica verso il potere costituito.
Hallin ha ridefinito questo approccio in una nuova versione:
1 − prima c’era la versione esecutiva (molto radicale) = i media seguono l’agenda e i punti di vista offerti dalle fonti legate ai governi
2 − Hallin ha poi proposto una elite version = i contenuti dei mass media si conformano agli interessi delle elite in generale, legate al potere legislativo, esecutivo, economico, militare, ecc. In questo caso, può manifestarsi un certo dissenso interno alle stesse elite che si ripercuote sui mass media, i quali possono favorire la vittoria di una posizione nei confronti delle altre.
2 Hallin ha anche distinto i possibili dibattiti all’interno dei media in 3 sfere:
1 1. sfera del consenso = nucleo dei valori comuni di una nazione
2 2. sfera della controversia legittima = si crea un certo dissenso all’interno dell’elite, ma si tratta comunque di posizioni legittime all’interno del dibattito politico
1 3. sfera della devianza = si creano delle posizioni politicamente devianti
2 2. copertura mediatica ⇒ modello del political contest di Wolsfeld: riguarda soprattutto i conflitti ineguali, in cui uno degli antagonisti dispone di una forza coercitiva maggiore. Questa teoria parte dalla considerazione che il campo politico eserciti un’influenza maggiore sul campo massmediatico che viceversa.
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I mass media sono generalmente uno strumento nelle mani degli attori politici più potenti.
A differenza del manufacturing consent di Chomsky, però, questo modello ammette che i mass media possano giocare un ruolo autonomo, favorendo l’attore più debole. Questo accade quando l’attore politico perde il controllo dell’ambiente politico = perde:
1 o la capacità di iniziare e controllare gli eventi
2 o la capacità di regolare il flusso di informazioni
3 o la capacità di ottenere il supporto delle elite.
3 2 casi che esemplificano questo effetto sono:
1 o la prima intifadah, durante la quale i palestinesi hanno usato i media a proprio favore, sfruttando anche la frattura che si era creata all’interno dell’elite israeliana
2 o la guerra del Golfo del 1991, durante la quale, nonostante Saddam Hussein abbia tentato di condurre una guerra mediatica, il controllo delle 3 variabili del controllo rimase nelle mani della coalizione.
4 3. effetti della copertura mediatica sugli attori politici e sull’opinione pubblica ⇒ CNN effect = l’impatto che i nuovi media globali esercitano sui decision makers. Il mondo post-guerra fredda costringe le classi politiche e militari di ripensare il ruolo dei media, sia per l’avvento dei media globali e, in particolare, delle reti satellitari all news (⇒ de-istituzionalizzazione del giornalismo, che si svincola dalle fonti ufficiali e velocizzazione dei cicli-notizia, che costringe gli attori politici a reagire in tempi molto brevi), che danno maggiore attenzione alle crisi umanitarie e ai conflitti anche molto distanti, sia per la maggiore incertezza nel leggere e nel gestire gli eventi internazionali da parte dei governi occidentali.
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