Epiro ed Etolia
Ciò che colpisce della storia greca del IV secolo è la tendenza all’ingresso nel gioco ellenico di regioni prima arretrate e marginali rispetto alle aree più evolute. In sostanza ciò che tempo prima era accaduto con l’ascesa della Macedonia a grande potenza, ora si riproponeva con l’Epiro e l’Etolia.
Gli Epiroti erano per molti versi simili ai macedoni: avevano una forte vocazione guerriera e conservavano la tradizione monarchica; tuttavia l’Epiro non era unito e coeso come la Macedonia di Filippo; questo perché alcune delle province che lo componevano avevano un livello diverso di civiltà e ciò determinava spinte centrifughe. Essi furono forti sotto re Pirro proprio perché il prestigio di cui godeva quel sovrano seppe creare unità. Alla sua morte, infatti, l’Epiro vide la sua potenza diminuire sensibilmente.
Più forti erano invece gli Etoli; l’Etolia era una regione semi-barbarica ancora sullo scorcio del V secolo: non aveva importanti città ed era perlopiù composta di villaggi. Ma forse fu questa la sua fortuna, perché non avendo municipi gli Etoli si strinsero in una lega saldissima che si dimostrò la potenza più forte della Grecia contemporanea (eccetto naturalmente la Macedonia). Ne è prova l’importanza fondamentale da loro avuta nel bloccare i barbari celti e il fatto che essi tennero la presidenza dell’Anfizione delfica per quasi un secolo.
Ciò che interessa far rilevare è che per i macedoni il III secolo rappresenta un periodo ben più duro del IV secolo, quando la forza della Grecia era rappresentata solo da Atene, Sparta e Tebe, peraltro in perenne contrasto fra loro. Ora molti più nemici contendevano la sua egemonia: i barbari Illiri spinti a Sud dall’espansione celtica a Nord; gli Epiroti dove prima c’erano solo pastori insignificanti; e infine, più pericolosi di tutti, gli Etoli nella Grecia centrale. E poi naturalmente gli altri regni ellenistici. Inoltre la Macedonia non era più quella di Filippo: era diventata un impero e poi aveva perso l’impero; ora, a seguito di tanti stravolgimenti dinastici, anche la fedeltà dei sudditi al nuovo re non poteva più essere quella di una volta.
Intanto nel Peloponneso Sparta, dopo la sconfitta contro Pirro, aveva visto le sue quotazioni aumentare come non le accadeva dai tempi della batosta di Epaminonda. Così, ringalluzzita nel morale accolse l’idea di far esplodere una nuova ribellione, così come le proponeva Atene, la quale era stata sobillata dall’Egitto, che intendeva strappare a Antiloco Gonata il controllo dell’Egeo.
Ma lo schieramento macedone era saldissimo: una forte guarnigione teneva Corinto, e con esso l’istmo che collega il Peloponneso alla Grecia centrale, mentre un’altra guarnigione occupava il Pireo, il porto di Atene. Così che era impossibile per Atene usare la sua flotta e per Sparta prestarle aiuto raggiungendo il Pireo via terra. Così, quando la flotta macedone sbaragliò quella egiziana, che nelle intenzioni dei “rivoltosi” avrebbe dovuto liberare il Pireo, fu chiaro che ormai metà della guerra era già persa. Gli spartani tentarono allora di prendere Corinto ma fallirono, determinando la fine anche della restante metà della guerra (264). Ma la vera sconfitta fu Atene, perché dopo questa ennesima “speranza frustrata” la città perse quello “spirito di Demostene” che l’aveva sempre animata alla lotta per la libertà: dopo il 264 Atene si sarebbe sempre più chiusa in sé stessa, rifiutando di interessarsi alle sorti della Grecia e concentrando le sue energie esclusivamente sugli affari spiccioli di tutti i giorni. Abbandonava insomma la lotta per l’indipendenza.
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