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Vita di strada e cultura della precarietà

Questa tesi prende in esame la realtà delle persone senza fissa dimora, cercando di descriverla ed interpretarla da un punto di vista antropologico. Da sempre definita sul piano sociale come epifenomeno della povertà, la vita di strada viene qui indagata nel suo potenziale creativo alla ricerca di relazioni, strategie comuni, occupazioni insolite e ridefinizioni di senso.
La trattazione parte da una ricerca sul campo che ho condotto alla Stazione Termini di Roma, analizzando la nascita, l'evoluzione e infine l'estinzione della Famiglia di Via Marsala: un gruppo di dieci persone - diverse per età, sesso e provenienza - che da settembre 2001 sino a maggio 2002 hanno dato luogo ad una inedita esperienza di vita in comune. La ricerca, condotta secondo la metodologia dell'osservazione partecipante, mi ha portato a ricostruire la genesi delle relazioni interne, la rete delle relazioni esterne, la mappatura degli spazi condivisi e le traiettorie individuali, consentendomi di gettare le basi per la formulazione di una teoria antropologica della vita di strada.
In tal senso la cultura della precarietà - partendo dalle teorie di Hannerz, di Goodenough e di De Certau e dagli studi di Cohen, di Colombo e Navarini, di De Angelis, ed altri - descrive un insieme di dispositivi di adattamento e di socializzazione capaci di ridefinire le identità disgregate delle persone senza fissa dimora.

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Introduzione Questo lavoro di ricerca ha avuto inizio nel mese di settembre 2001 da un incontro casuale tra me ed un uomo di quarantasei anni che vive in strada da diverso tempo; il suo nome è Sandro. Allora egli abitava il versante nord-orientale della Stazione Termini di Roma, nell’area compresa tra Via Marsala e Via Vicenza. Con lui c’erano altre tre persone: Filippo, Hector Santos e Ianush. Insieme costituivano un piccolo gruppo che si era venuto a creare nel corso dell’estate proprio intorno a Sandro, al suo entusiasmo relazionale ed alla sua apparente serenità di «vecchio fricchettone», come ebbe a definirsi lui stesso. Di ritorno da Napoli, li incontrai la sera del ventisette settembre seduti davanti ad un ingresso secondario della chiesa Sacro Cuore di Gesù, in Via Marsala: scambiarono con me alcune battute e per la prima volta nella mia vita mi resi conto che “quelle persone” – che con un solo sguardo avevo già mentalmente catalogato come “barboni” – parlavano, ridevano e scherzavano; e che io ero capace di ascoltarli e di ridere con loro. Eravamo uomini di questa terra, fermi al lato di una strada, più simili di quanto potessimo immaginare e tanto distanti da far sì che la loro vita, per quel poco che l’ho conosciuta, diventasse per me un insegnamento che non dimenticherò mai. Mi invitarono a sedere insieme a loro e mi offrirono un bicchiere di vino: al centro del gradino sedeva Sandro, che tutti chiamavano Babbo; alla sua destra c’ero io, che ascoltavo il suo racconto ironico riferito alle presunte e misteriose origini Inca-Sioux di Hector Santos; e in piedi davanti a noi Ianush, giovane ed irrequieto – allora aveva trentatré anni –, interrompeva continuamente il Babbo per raccontare quella stessa storia a modo suo. Dopo alcuni minuti arrivò Filippo, un uomo robusto e tondo di origine Somala, che si sedette silenziosamente alla mia destra, seguito da Hector Santos, un Peruviano di bassa statura poco più giovane di Ianush, il quale ascoltati i discorsi dei suoi due compagni ricominciò la narrazione delle sue origini, arricchendola di particolari incredibili. Tra me e loro nacque quella sera un’amicizia che, per circa un mese, mi portò ad incontrarli quasi ogni giorno e ad impegnarmi, per quanto potevo, a discutere e provare a risolvere piccoli problemi quotidiani. Era il ventinove ottobre quando dissi a Sandro che stavo pensando di iniziare una ricerca sulla vita delle persone che non hanno una dimora, e gli chiesi se riteneva possibile lasciarmi frequentare il gruppo – che nel frattempo era 3

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