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La crisi asiatica del 1997: il ruolo dell'intermediazione finanziaria e le politiche di aggiustamento

Lo studio analizza il ruolo della intermediazione finanziaria nella crisi del '97.
Secondo una prima tesi l’allocazione del credito era soggetta a incentivi distorti, che favorivano impieghi con bassa redditività; i creditori esteri, anticipando una possibile crisi di insolvenza, avrebbero ritirato improvvisamente i loro capitali. La crisi asiatica sarebbe dunque legata ad aspettative circa l’andamento della bilancia dei pagamenti. I capitali esteri affluiti a seguito della liberalizzazione dei capitali negli anni ‘90 non avrebbero finanziato la crescita dell’economia, sostenuta da una elevata quota di risparmi sul PIL; intermediati da un sistema creditizio inadeguato, essi avrebbero invece reso instabile il sistema, consentendo il finanziamento di imprese marginali e la crescita speculativa dei valori mobiliari e immobiliari.
Secondo un’altra tesi, Giappone, Stati Uniti ed Europa, avrebbero indirizzato i loro surplus verso le banche asiatiche; una improvvisa crisi di fiducia, innescata forse dal possibile aumento dei tassi d’interesse giapponesi e da alcuni fallimenti, avrebbe avviato il ritiro delle attività nell’area, principalmente prestiti on call e overnight, e scatenato il panico. L’assenza di liquidità che ne sarebbe seguita avrebbe paralizzato il sistema dei pagamenti, ed impedito ad aziende altrimenti solventi di smobilizzare i crediti commerciali e finanziare il ciclo produttivo attraverso le banche, provocando fallimenti a catena. La crisi asiatica sarebbe dunque una crisi di liquidità, a carattere finanziario e non valutario. La deregolamentazione dei sistemi bancari asiatici avrebbe reso più vulnerabile il sistema.
Ambedue le tesi convergono nell’indicare il sistema dell’intermediazione finanziaria come un elemento cardine della crisi: l’esistenza di un sistema bancario fragile, sottocapitalizzato e sottoposto ad un sistema di incentivi distorti sarebbe il “fondamentale” all’origine della crisi.
I sostenitori della prima tesi evidenziano la necessità di migliorare l’allocazione del credito, favorendo aumenti di capitale e ingresso di banche straniere, ed introducendo più evoluti criteri di valutazione del merito creditizio delle imprese.
I sostenitori del secondo punto di vista, invece, focalizzano l’attenzione sulla necessità di introdurre coefficienti patrimoniali elevati ed adeguatamente ponderati per categoria di rischio, allo scopo di limitare la vulnerabilità del sistema. Soprattutto, però, i sostenitori di tale tesi evidenziano la necessità di introdurre misure fiscali che scoraggino l’afflusso di capitali esteri a breve termine, e di facilitare, al contrario, l’afflusso di capitali a medio e lungo termine e gli investimenti diretti dall’estero, meno esposti alle variazioni del sentiment dei mercati.

Nel mercato internazionale dei capitali, infatti, i maggiori volumi di scambio hanno per oggetto attività creditizie a breve termine, negoziate over the counter con scopi speculativi, e non per investimenti reali a lungo termine.
In questo scenario è sicuramente importante rafforzare il sistema dell’intermediazione creditizia dei paesi emergenti, e stimolare la crescita di mercati finanziari interni solidi ed efficienti, all’interno dei quali avviare in un secondo momento il delicato processo della disintermediazione bancaria. D’altra parte, questa sola azione non è sufficiente a garantire un sentiero di sviluppo stabile ai paesi emergenti.

Il passaggio da un modello finanziario chiuso e centrato sulla intermediazione bancaria ad un modello aperto al capitale estero e ad ampio spettro di intermediazione va affrontato con la massima attenzione al simultaneo e coerente sviluppo di altri aspetti del sistema paese (dati macroeconomici, assetto delle banche, regolamentazione dei mercati, sistema politico, sistema giuridico). L’opportunità di controlli selettivi sui movimenti di capitale tesi a scoraggiare i movimenti speculativi a breve termine diventa ancora più evidente quando si considerino i costi sociali connessi alla transizione. Un sistema finanziario chiuso e fondato sull’intermediazione creditizia è più stabile di un sistema finanziario ad ampio spettro, quale quello prevalente nelle economie anglosassoni. Esso comporta l’assunzione di maggiori rischi da parte delle famiglie, sia sul versante dell’utilizzo delle loro disponibilità finanziarie, sia per quanto riguarda la stabilità dei loro rapporti di lavoro.
La transizione da un modello finanziario all’altro può avvenire senza grandi traumi in paesi grandi, dotati di istituzioni forti, di solida reputazione e di una moneta stabile.
La crisi asiatica del 1997 ci insegna che per i paesi emergenti la situazione è differente. Riforme volte a creare sistemi finanziari più solidi, così come l'introduzione di misure di controllo sull’afflusso di capitali esteri a breve termine, sono entrambe auspicabili.

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1 Introduzione La regione asiatica sud orientale aveva conosciuto a partire dai primi anni Settanta un forte sviluppo: il PIL era cresciuto più rapidamente che in qualsiasi altra area, e con esso erano migliorati la distribuzione dei redditi, il livello medio di istruzione, il regime alimentare, l’aspettativa di vita. Nel corso degli anni Novanta, la comunità economica internazionale aveva più volte applaudito al successo dei paesi del sud est asiatico, prendendoli a modello per le altre economie emergenti. In questo quadro destò grande stupore la rapidità e la durezza con la quale la crisi, aperta da un attacco alla moneta thailandese, si diffuse nell’intera area, paralizzando l’economia ed il sistema dei pagamenti e provocando fallimenti a catena. Gli interventi delle istituzioni economiche internazionali non riuscirono ad arginare la crisi prima di circa diciotto mesi; in realtà, la fuga dei capitali stranieri a breve termine si bloccò solo al loro completo esaurimento. Le cause della crisi sono ancora oggi oggetto di un ampio dibattito, che esamineremo nei capitoli terzo e quarto, dopo una breve descrizione degli eventi nel primo capitolo, ed un’analisi della regione nel secondo. Due principali tesi si contrappongono: alcuni hanno denunciato la presenza di squilibri nei fondamentali macroeconomici, riletti in maniera critica ex-post; altri invece ritengono che la crisi sia stata causata dalla diffusione di un attacco di panico sui mercati internazionali dei capitali, intrinsecamente instabili. Fra coloro che avviarono la rilettura dei fondamentali, l’attenzione si concentrò subito sull’esistenza di sbilanci nelle partite correnti, che avevano condotto all’accumulazione di un ampio debito verso l’estero; il peggioramento della qualità degli investimenti finanziati dai flussi di capitale straniero, di bassa

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