Il patto di non concorrenza nel rapporto di lavoro subordinato
Con l’espressione «patto di non concorrenza» sono individuate in diritto del lavoro quelle pattuizioni, intercorrenti tra datore e dipendente, con le quali si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto (art. 2125 c.c.). La funzione normativa del patto di non concorrenza (o, meglio, di vietata concorrenza) viene generalmente individuata nell’esigenza di trovare un equo bilanciamento tra due ordini di contrapposti interessi: «da un lato, quelli del datore aventi ad oggetto la salvaguardia del patrimonio immateriale nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica amministrativa, metodi e processi di lavoro ecc.) ed esterni (avviamento, clientela ecc.); dall’altro, quelli del lavoratore sicuramente messi in gioco da una restrizione convenzionale (della successiva attività lavorativa) destinata a comprimere gli spazi di ricerca di una nuova occupazione e di piena estrinsecazione delle proprie attitudini professionali» e che hanno ad oggetto la contro prestazione dovuta dal datore di lavoro, ossia il compenso in denaro.
«Si tratta, evidentemente, di un patto teso a salvaguardare l’imprenditore contro atti di concorrenza che, provenendo dall’ex dipendente, a conoscenza di dati relativi all’impresa, potrebbero rivelarsi più pregiudizievoli di quelli posti in essere da un altro imprenditore. Si parla infatti di concorrenza differenziale». In tal modo, «il datore di lavoro si assicura, per il periodo successivo alla cessazione del rapporto, la tutela che in costanza di collaborazione lavorativa è apprestata dall’art. 2105 c.c., che vieta al dipendente di trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore».
La regolamentazione normativa di questo tipo di pattuizioni, diffusamente presente anche negli altri Paesi, viene disciplinata nel nostro ordinamento con l’art. 2125 del codice civile del 1942. Non manca invero un antecedente storico: tale può essere considerato l’art.8 del r.d.l. 13 novembre 1924, n.1825, sull’impiego privato, il quale peraltro trattava congiuntamente le materie ora disciplinate dagli artt. 2105 e 2125 c.c. La previsione di limiti alla stipulazione di clausole di vietata concorrenza operava tuttavia solo con riguardo agli impiegati, anche se era dibattuto in giurisprudenza il divieto della stipulazione di tali convenzioni con gli operai. La prevalente dottrina e la giurisprudenza hanno solitamente individuato nell’art. 2125 del codice civile una norma di carattere speciale riconducibile pur sempre alla disciplina generale dell’art. 2596 c.c. nonostante la dislocazione materiale dei due articoli nel testo del codice (il primo nel titolo «del lavoro nell’impresa», il secondo in quello «della disciplina della concorrenza e dei consorzi», del libro quinto). Il rapporto di genere a specie ricostruito dalle due norme (che varrebbe quanto meno a trarre dalla seconda i principi generali nel cui ambito può trovare applicazione la prima) non viene riconosciuto da tutti: taluni, infatti, contestano la stretta interdipendenza, ponendo l’accento sull’autonomia della norma lavoristica l’inapplicabilità dei principî e criteri enunciati nell’art. 2596 c.c.
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Informazioni tesi
Autore: | Andrea Rocco |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2004-05 |
Università: | Università degli Studi di Padova |
Facoltà: | Scienze Politiche |
Corso: | Scienze giuridiche |
Relatore: | Maria Giovanna Mattarolo |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 44 |
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FAQ
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