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La professionalità dell'educatore nella relazione di aiuto ai malati terminali

Come aiutare chi muore, a trovare valore nella fine della propria vita?
Il sostegno di altri esseri umani è quello che gli esseri umani ricercano nelle situazioni più difficili. È per questo che si è indagato nelle relazioni umane. Le relazioni significativi, scomode, fastidiose, fonte di delusioni, frustrazioni, che costringono a cambiare idea e mettono in crisi. Ma la crescita nasce nella diversità, perché la similarità non provoca attrito, non stimola alla messa in discussione di chi si è e di chi è il prossimo.
La relazione prevede due o più persone che siano disposte a stabilire una comunicazione autentica. Colui che presta aiuto deve avere una disposizione particolare ed essere pronto all’azione per aiutare l’altro; che a sua volta fornirà il “materiale” per essere aiutato, cioè la propria storia, ricca di significato che solo lui può portare nella relazione.
Relazionarsi può significare incontrare il dolore degli altri, la malattia che distrugge il loro corpo, la loro morte in cui inevitabilmente ci si specchia. Questa identificazione, la possibilità pur remota di essere vulnerabile, spinge l’uomo a rifuggire la vicinanza con chi soffre.
Come reagisce chi non può separarsi dal proprio corpo malato? Con sgomento, rifiuto, rabbia, disperazione. La malattia è attacco al corpo, che contribuisce a costruire l’identità di ciascuno e la “contiene”.
Spesso compagno fastidioso e mai silenzioso della malattia è il dolore, che separa l’uomo sano da quello malato, per la sua incomunicabilità.
La malattia è con speranza associata all’idea di guarigione, in un’epoca nella quale la medicina ha “escogitato scampo da mali incurabili”.
Ma ci sono malattie contro cui la medicina ha ingaggiato da anni una durissima guerra, non ancora vinta.
Chi riceve la condanna a morte da un medico, deve rielaborare la propria vita, i progetti che vanno distrutti e deve difendersi. Nel viaggio verso la fine i compagni sono molto spesso il dolore, i ricordi, la vita passata, perchè il tratto in cui si aspetta la morte sembra essere già non più vita. Un moribondo viene visto come un essere già morto. Non ha voce in capitolo per quanto riguarda le cure, a volte non è pienamente consapevole delle sue reali condizioni, ma se sa, è difficile comunicare con lui e la sua condizione è quasi imbarazzante.
La morte del malato terminale offre l’opportunità di pensare la vita e affrontare anche l’esperienza che sembra non abbia niente a che fare con la vita ed è invece il suo naturale epilogo.
Il luogo della cura del morente può essere la sua stessa casa, nella quale entrano le persone capaci di curarlo al meglio, oppure uno speciale ospedale, il cui fine non è la guarigione dell’assistito, ma il raggiungimento di una sempre migliore qualità di vita, con l’aiuto di diverse persone che si occupano di lui. Assimilabile all’ospedale quanto a struttura, ma governato da una filosofia totalmente diversa è l’hospice, dove non è più possibile la cura, ma l’aver cura.
Con questo lavoro si è voluto scoprire come i vari compagni del morente possano valorizzare la parte finale della vita altrui come “lo stadio finale della crescita”, senza pretendere di travalicare il muro di isolamento che inevitabilmente la morte erige fra la vittima e il mondo esterno. In base agli studi svolti si è potuto appurare che spesso questa competenza, per quel che riguarda molti operatori del settore, è lasciata al caso.
Uno dei professionisti citati poco spesso in relazione a problematiche di questo genere è l’educatore professionale.
Se è vero che si cresce fino alla morte, l’educatore non è un estraneo o un profano nelle corsie dell’Ospedale, ma vi trova uno spazio di professionalità. Quale esperto di relazioni d’aiuto, formato per essere un helper, può contribuire al miglioramento della qualità di vita dei moribondi, perché sono patrimonio della sua professionalità competenze necessarie nelle relazione con i morenti.
È proprio lui che potrà, in forza del percorso formativo che ha fatto, aiutare il malato a trovare in sè, nella propria storia non ancora conclusa, il significato della sua vita. Perché chi si trova a faccia a faccia con la morte può dire qualcosa in più degli altri, insegnando loro proprio a vivere.

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2 La professionalità dell’Educatore nella relazione di aiuto al malato terminale. INTRODUZIONE “Ricco di ogni risorsa, apprese da sé le parole e il pensiero rapido come il vento e gli impulsi agli ordinamenti civili e a fuggire gli strali dei geli inospitali a cielo scoperto e gli strali delle piogge violente; verso nessun evento futuro va privo di risorse; solo dalla morte non troverà scampo; ma ha escogitato scampo da morbi incurabili.”. Euripide, Antigone La mia ultima esperienza di tirocinio si è svolta in un reparto dell’Ospedale. Lunghe ore passate nella sala di attesa del reparto di Oncologia Medica, negli ambulatori e in corsia insieme a medici riluttanti, inconsapevoli e raramente accoglienti verso “personale non medico” che veniva ad infiltrarsi in ambiti non consentiti. Diverse occasioni di studio e approfondimento mi hanno resa consapevole della necessità di una formazione a livello umanistico per gli operatori sanitari.

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Informazioni tesi

  Autore: Paola Margheriti
  Tipo: Tesi di Laurea
  Anno: 2001-02
  Università: Università degli Studi di Perugia
  Facoltà: Scienze della Formazione
  Corso: Scienze dell'Educazione
  Relatore: Laura Arcangeli
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 174

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Parole chiave

educatori
malati terminali
malattia terminale
relazione di aiuto

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