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Stereotipi e pregiudizi nei confronti dei pazienti psichiatrici: gli effetti della riforma psichiatrica

Dall'entrata in vigore della legge Basaglia del 1980, il paziente psichiatrico ha ottenuto diversi benefici, primi tra tutti la dignità di essere umano e la possibilità di essere curato concretamente attraverso le tecniche combinate della medicina e della psicologia. Tuttavia, in 30 anni si è ancora lontani da una situazione operativa ottimale. Ben poco è stato fatto per modificare la percezione comune e l'opinione generali riguardo la malattia psichiatrica, perciò stigmatizzazione e pregiudizio risultano ancora diffusi. Dalle teorie alla base del pregiudizio, fenomeno sociale che trova il suo fondamento nell'attivazione degli stereotipi, si analizzeranno alcuni studi che hanno approfondito la natura delle opinioni e dei sentimenti della popolazione generale nei confronti di questa categoria di pazienti, nonché lo stesso punto di vista di questi ultimi, arrivando ad una riflessione conclusiva sulle misure prese finora e su possibili sviluppi futuri nell'azione contro il pregiudizio verso il paziente psichiatrico.

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5 Introduzione LA RIFORMA PSICHIATRICA IN ITALIA E NEL MONDO Dal periodo delle manifestazioni studentesche e dell‟approvazione della legge 180, proposta dallo psichiatra Franco Basaglia, in Italia la situazione all‟interno dei servizi di cura psichiatrica è visibilmente cambiata. Le ripercussioni sono state avvertite anche all‟estero, in maniera attenuata, ma pur sempre rilevante; infatti in tutti gli altri paesi il cambiamento non riguardò in primis la chiusura dei manicomi, bensì la loro struttura e la loro dinamica: il numero delle persone rinchiuse diminuì drasticamente e il luogo di contenimento si trasformò progressivamente in luogo di terapia . Ma ritorniamo in Italia. Tra gli obiettivi della riforma, fondamentale fu, per l‟appunto, il graduale svuotamento dei manicomi, che avrebbe portato poi alla loro chiusura definitiva e quindi alla creazione di reparti psichiatrici all‟interno degli ospedali, per l‟intervento su casi acuti, e di centri comunitari di salute mentale, in cui trasferire i pazienti. Fu questa una vera e propria svolta, grazie alla quale dai quasi 80.000 “reclusi” del 1978 si arrivò a contarne circa 8.000, nei pochi manicomi rimasti, nel 1998. Tra il ‟97 e il ‟99 venne attuata una ricerca che riguardò i pazienti residenti in 22 manicomi dislocati in 3 regioni del nord e a Roma tra il ‟94 e il „96: i risultati riportarono che tra tutti i pazienti (diagnosticati soprattutto come schizofrenici o ritardati mentali) più di 2/3 non mostravano problemi comportamentali significativi, che riguardavano invece solo il 19% del campione; inoltre fu giudicato completamente autonomo nella gestione della quotidianità il 41% e quasi completamente un altro 24% (D‟Avanzo, Frattura, Barbui, Civenti, e Saraceno, 1999; Frattura e D‟Avanzo, 1997, 1998). Sono dati questi che ci fanno riflettere su quanto poco accurati fossero i criteri diagnostici utilizzati per decidere l‟internamento delle persone. Prima della riforma, la decisione era compito di un magistrato e, una volta decretata la diagnosi di “follia”, la pubblica sicurezza veniva incaricata di prelevare il malato. Il manicomio era un‟istituzione comoda per i più, in cui rinchiudere persone fastidiose e pericolose, condannate a passare il resto della loro

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