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Orgogliosi di essere rom: il caso di una cultura che ha messo ai margini la psicopatologia

I rom hanno rappresentato l’oggetto della mia attenzione in un territorio ancora inesplorato che è quello della psicopatologia. La salute dei rom è sempre stata discussa come un’emergenza, e questa rilevazione si conforma al dato reale secondo cui “le condizioni di salute nelle comunità rom sono di gran lunga inferiori rispetto a quelle delle comunità maggioritarie”. In generale, l’urgenza “organica” ha affievolito l’interesse per l’altro profilo della salute, quello psicologico.Inizialmente ho avuto motivo di credere che la precarietà ascrivibile all’ essere rom, considerata non solo limitatamente al rischio per la propria salute, ma generalizzata a tutta un’altra serie di condizioni, potesse costituirsi come un fattore di stress predisponente al disagio psichico. Successivamente sono scivolata nella convinzione opposta, e cioè che i rom siano culturalmente preservati dal disagio psichico. Con questo intendo postulare che i tempi dell'insorgenza psicopatologica sono rallentati dalla presenza di specifiche leve di resistenza messe a disposizione dalla cultura. In particolare, la fermezza e la continuità culturale hanno costituito per il popolo rom un dispositivo di immunità psichica, che funziona tamponando l’impatto negativo degli urti traumatici e riducendo la vulnerabilità del gruppo e dei singoli individui alla psicopatologia. Per comprendere in che modo la funzione culturale possa essere letta in termini immunitari, il primo passo è stato quello di riservarle un approfondimento attraverso gli elementi più caratterizzanti. Nella prima parte dl mio lavoro, ho cercato perciò di fornire un profilo storico-culturale dell’identità rom. Nel caso dei rom questo si è reso tanto più neessario visto che essi continuano a costituire l’ oggetto di attribuzioni indebite: perciò la prima domanda che mi sono posta è stata: chi sono i rom? Nel secondo capitolo ho tentato di accedere alla dimensione culturale rom. In particolare, il mio approfondimento ha riguardato alcune condizioni, come il nomadismo e l’organizzazione sociale, che oltre a rappresentare il tessuto connettivo dell’essere rom, documentano le specificità qualitative attraverso le quali si assiste ad una presenza culturale ancora oggi così fortemente tipizzata. La seconda parte è un'indagine sulla specifica questione della marginalità psicopatologica presupposta per i rom. Il costrutto da cui sono partite le mie riflessioni è quello di trauma psicologico. Ho eseguito una breve escursione nel sentiero del trauma capitalizzando sui contributi attraverso cui è possibile accedervi. In tutti i casi, a prescindere dal vertice di osservazione, nella tradizione psicologica è ormai ufficialmente conclamata la relazione tra il trauma e la psicopatologia. Il trauma è in rapporto all’individuo attraverso una molteplice e articolata serie di connessioni, che integrano o determinano molte altre configurazioni psicopatologiche. L'attenzione riguarda poi una nuova entità traumatica, il trauma migratorio, che coinvolge individui assai diversi ma accumunati dalla condizione di essere migranti. L’etnopsichiatria e l’etnopsicopatologia sono le discipline che hanno concorso in prima linea per decodificare i bisogni che tali individui presentano, poiché spesso essi si formalizzano come domande di cura. L’aspetto interessante è che la traumaticità del transito migratorio è associata alla perdita della propria cultura madre. Essa comporterebbe una serie di rotture multiple tali da paralizzare l’individuo in uno stato di alienazione dal modo e da se stesso. La perdita culturale può trasformarsi in una perdita assoluta, e la disintegrazione retroagisce su tutti quei livelli che prima erano stati salvaguardati e perciò anche sulla salute, determinandone una compromissione che non raramente ha carattere psicopatologico. Utilizzando la griglia che Losi si ha impiegato per analizzare la struttura del trauma migratorio in cui sono enunciati i principali fattori di stress psicosociale per il migrante, quelli cioè che, assommandaosi attraverso la perdita culturale, possono costituire il precipitum traumatico,ho individuato la possibilità di accostare la condizione dei migranti con quella dei rom perché entrambe le tipologie sono presenti sul nostro territorio in qualità di minoranze. Tuttavia ciò che si rende peggiorativo della salute psichica del migrante non sortisce il medesimo effetto presso i rom. La discriminante appare legata a una forte presenza culturale che ricorre tra i rom e risulta invece inevitabilmente perduta nel migrante per cui salta l' azione immunitaria di tipo culturale che viene costantemente e inconsciamente esercitata in presenza di una serie di meccanismi omeostatici attivi nel gruppo di riferimento.

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INTRODUZIONE Il caso rom non è un caso umano né ideologico, non è il caso di Ponticelli o di Opera e neanche un caso di razzismo o di xenofobia. Il caso rom è piuttosto uno spazio di pensabilità, di occorrenza e di coincidenza, dove ogni singola lettura, informazione o pensiero ha contribuito alla realizzazione di questo elaborato, che mi piacerebbe presentare come l’incarnazione modesta di una riflessione ardita. Ho sempre confidato nella forza del retaggio scientifico, credo che i costrutti teorici e i dati sperimentali rappresentino in esclusiva l’ancoraggio più valido per qualunque allestimento argomentativo. Nel mio caso, tuttavia, non ho potuto disporre adeguatamente di questa risorsa giacché il mio interesse, collocandosi su uno dei più moderni fronti di ricerca, ha potuto nutrirsi di ben più esigui contributi scientifici. Il mio lavoro pertanto non consisterà nella presentazione di un progetto sperimentale e nemmeno in una rassegna teorica. E tuttavia, solo attraversando entrambe le dimensioni, esso ha potuto costituirsi in ultima istanza come un’ipotesi personale, che vorrei fosse riconosciuta proprio a partire dal suo deficit scientifico, perché solo ciò che oggi è probabile può aspirare a diventare certo un domani. Ciò cui ambisco è un futuro non troppo lontano, in cui avrò la possibilità di giustificare, oltre che presentare il caso rom, come quello di una cultura che ha messo ai margini la psicopatologia. Si tratta di un’idea, che non nasce come premessa di un discorso che cerca di corroborarla, essa si configura meglio come prodotto emergente da una riflessione tuttora in corso, fecondata da correnti logiche sia di natura deduttiva sia induttiva. I rom hanno rappresentato l’oggetto della mia attenzione in un modo che definirei impopolare, che oltrepassa i luoghi della conoscenza comune, per spingersi sino ai suoi bordi in un territorio ancora inesplorato che è quello della psicopatologia. La salute dei rom è sempre stata discussa come un’emergenza, e questa rilevazione, lungi dall’essere infondata, si conforma al dato reale secondo cui “le condizioni di salute nelle comunità rom sono di gran lunga inferiori rispetto a 1 quelle delle comunità maggioritarie”.. In realtà anche quest’evidenza ha faticato a costituirsi come tale poiché, la presenza dei rom, pur essendo una costante territoriale delle nazioni europee, non è mai stata regolamentata. In Italia ad esempio, per quanto riguarda la politica sanitaria, i rom privi di cittadinanza sono assimilati alla categoria degli stranieri extracomunitari e perciò possono accedere ai servizi sanitari pubblici come previsto dalla normativa vigente sull’immigrazione. In realtà, a differenza degli immigrati, i rom sfruttano poco quest’ opportunità, come attestato dalla scarsa frequentazione delle strutture e dei servizi territoriali, e da una più generale resistenza ad ogni forma di prescrizione medica specie di tipo farmacologico. Così, per quanto i rom siano indicati come una popolazione a rischio, manca una rilevazione di quelli che potrebbero rivelarsi bisogni sanitari specifici, e la possibilità di monitorare il loro effettivo stato di salute appare ulteriormente compromessa dalla frequenza con cui essi eludono i censimenti. Il 1 A.A.V.V., Comunità ROM e Salute in Italia in Reducation of Health Inequalities in the Rom Community; Edizione curata da Maria Grazia Mastrangelo (Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza) VI

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