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«Se l'è cercata»: il sessismo implicito nel discorso giornalistico sul femminicidio

La discriminazione e la violenza di genere permeano oggi ogni aspetto della società, senza limiti geografici né culturali.
Per affrontare tale fenomeno sociale, è necessario che lo si conosca in profondità. In questa direzione è interessante evidenziare come i media non si presentino esclusivamente come veicoli di informazione, ma conservino un potere non troppo esplicito: la manipolazione dell’opinione pubblica. È chiaro come il racconto giornalistico partecipi «alla costruzione e diffusione di specifiche definizioni dei mondi sociali entro cui gli attori si muovono, concorrendo a ritagliare le cornici di significato che rendano i “fatti” comprensibili» (Gius-Lalli 2016: 88). La considerevole responsabilità di cui il discorso giornalistico in particolare è investito risiede, dunque, nelle parole: è a partire da queste che noi formuliamo, ridefiniamo o legittimiamo la nostra percezione del soggetto trattato. In virtù di tale potere, è riconosciuta loro la facoltà di innescare talvolta dei cambiamenti sociali, ma la strada sembra essere in salita per quanto riguarda il fenomeno del femminicidio. La rappresentazione linguistica di questo concetto, infatti, pare perpetuare una serie di chiavi di lettura assolutamente sessiste.
Questo contributo nasce, infatti, da una riflessione scaturita quasi spontaneamente dalla lettura di articoli di giornale che ci raccontano la violenza di genere: in molti di questi sembra venir fuori l’immagine assolutamente stereotipata dell’atto violento, dell’autore e della vittima. Così gli attori sociali che prenderanno parte a queste scene diverranno “ideali”, mero riflesso dei ruoli, delle funzioni e dei modelli rappresentativi di una società maschilista. La copertura mediatica del fenomeno sociale diventa, quindi, elemento costitutivo del fenomeno stesso, capace di generarne una coscienza alterata da parte del fruitore e ostacolare la possibilità di intervenire efficacemente contro di esso.
Nel corso di questo contributo ci proponiamo di elaborare una risposta alle principali domande che sono sorte a partire da queste riflessioni: è veramente possibile che la copertura mediatica del femminicidio sia in grado di veicolare una percezione stereotipata del crimine e dei suoi attori? Se sì, quali sono le strategie discorsive che lo permettono?
Il lavoro potrebbe essere idealmente diviso un due parti: ai primi due capitoli di carattere teorico seguirà una seconda parte di natura analitica.
Nel primo capitolo si discuterà l’importanza di conferire il giusto nome alla realtà che ci circonda in quanto «le cose (n.d.r e aggiungerei qui: i fenomeni) esistono, ma non basta indicarle. Per comprenderle, perché acquistino per noi un significato, siano discutibili, entrino a pieno titolo nella riflessione pubblica e dunque siano oggetto di confronto, e di crescita, occorre che abbiano un nome» (Bidussa 2018 o.l). Così si parlerà di femminicidio e non più di omicidio senza distinzione di genere.
Successivamente, saranno resi noti i riconoscimenti giuridici del fenomeno in Italia, evidenziando la maniera in cui le istituzioni tendono a fornire una risposta di tipo emergenziale ad un fenomeno in realtà strutturale e che affonda le sue radici nella società patriarcale in cui viviamo. Di quest’ultima e della legittimazione che fa della violenza di genere, parleremo nel capitolo 3.
La seconda parte di questo contributo, invece, si riserverà di introdurci ad una panoramica teorica sull’analisi del discorso, presentandoci i suoi principali teorici. Gli strumenti di questa ci saranno utili ad analizzare i processi di stereotipizzazione e stigmatizzazione messi in atto dal discorso giornalistico nazionale e delle chiavi di lettura cui questo ricorre per presentarci il femminicidio. Questo ci condurrà alla segnalazione dei più abusati frames interpretativi, evidenziando come questi siano in grado di direzionare il nostro giudizio attraverso l’enfatizzazione di certi aspetti o la dissimulazione di altri. Considerata la struttura sopra descritta, potremmo dire che il nostro lavoro si situa a metà tra un’analisi linguistica e una ricerca sociologica che ha come oggetto la violenza di genere e considera la lotta per il suo contrasto un fatto sociale e non isolato.

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1. Introduzione La discriminazione e la violenza di genere permeano oggi ogni aspetto della società, senza limiti geografici né culturali. Per affrontare tale fenomeno sociale, è necessario che lo si conosca in profondità. In questa dire- zione è interessante evidenziare come i media non si presentino esclusivamente come veicoli di in- formazione, ma conservino un potere non troppo esplicito: la manipolazione dell’opinione pubblica. È chiaro come il racconto giornalistico partecipi «alla costruzione e diffusione di specifiche defini- zioni dei mondi sociali entro cui gli attori si muovono, concorrendo a ritagliare le cornici di signifi- cato che rendano i “fatti” comprensibili» (Gius-Lalli 2016: 88). La considerevole responsabilità di 1 cui il discorso giornalistico in particolare è investito risiede, dunque, nelle parole: è a partire da queste che noi formuliamo, ridefiniamo o legittimiamo la nostra percezione del soggetto trattato. In virtù di tale potere, è riconosciuta loro la facoltà di innescare talvolta dei cambiamenti sociali, ma la strada sembra essere in salita per quanto riguarda il fenomeno del femminicidio. La rappresentazio- ne linguistica di questo concetto, infatti, pare perpetuare una serie di chiavi di lettura assolutamente sessiste. Questo contributo nasce, infatti, da una riflessione scaturita quasi spontaneamente dalla lettura di articoli di giornale che ci raccontano la violenza di genere: in molti di questi sembra venir fuori l’immagine assolutamente stereotipata dell’atto violento, dell’autore e della vittima. Così gli attori sociali che prenderanno parte a queste scene diverranno “ideali”, mero riflesso dei ruoli, delle fun- zioni e dei modelli rappresentativi di una società maschilista. La copertura mediatica del fenomeno sociale diventa, quindi, elemento costitutivo del fenomeno stesso, capace di generarne una coscien- za alterata da parte del fruitore e ostacolare la possibilità di intervenire efficacemente contro di esso. Nel corso di questo contributo ci proponiamo di elaborare una risposta alle principali domande che sono sorte a partire da queste riflessioni: è veramente possibile che la copertura mediatica del femminicidio sia in grado di veicolare una percezione stereotipata del crimine e dei suoi attori? Se sì, quali sono le strategie discorsive che lo permettono? Il lavoro potrebbe essere idealmente diviso un due parti: ai primi due capitoli di carattere teorico seguirà una seconda parte di natura analitica. Nel primo capitolo si discuterà l’importanza di conferire il giusto nome alla realtà che ci circon- da in quanto «le cose (n.d.r e aggiungerei qui: i fenomeni) esistono, ma non basta indicarle. Per comprenderle, perché acquistino per noi un significato, siano discutibili, entrino a pieno titolo nella riflessione pubblica e dunque siano oggetto di confronto, e di crescita, occorre che abbiano un nome» (Bidussa 2018 o.l). Così si parlerà di femminicidio e non più di omicidio senza distinzione 2 di genere. Successivamente, saranno resi noti i riconoscimenti giuridici del fenomeno in Italia, evidenzian- do la maniera in cui le istituzioni tendono a fornire una risposta di tipo emergenziale ad un fenome- no in realtà strutturale e che affonda le sue radici nella società patriarcale in cui viviamo. Di que- st’ultima e della legittimazione che fa della violenza di genere, parleremo nel capitolo 3. La seconda parte di questo contributo, invece, si riserverà di introdurci ad una panoramica teori- ca sull’analisi del discorso, presentandoci i suoi principali teorici. Gli strumenti di questa ci saranno utili ad analizzare i processi di stereotipizzazione e stigmatizzazione messi in atto dal discorso gior- nalistico nazionale e delle chiavi di lettura cui questo ricorre per presentarci il femminicidio. Questo ci condurrà alla segnalazione dei più abusati frames interpretativi, evidenziando come questi siano in grado di direzionare il nostro giudizio attraverso l’enfatizzazione di certi aspetti o la dissimula- zione di altri. Gius C.-Lalli P. (2016), Raccontare il femminicidio: semplice cronaca o nuove responsabilità?, p.88. 1 Bidussa D. (2018 o.l.), Un anno senza Zygmunt Bauman, nel sito Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, ultima consul 2 - tazione: 23 agosto 2020, (URL:https://fondazionefeltrinelli.it/un-anno-senza-zygmunt-bauman/). 3

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Parole chiave

media
patriarcato
delitto passionale
sessismo
vittimizzazione
violenza di genere
femminicidio
discorso mediatico
frame interpretativi
raptus di gelosia

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