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Modello veneto e Terza Italia: un caso di insediamento calzaturiero nel territorio veronese (1954-1985)

Questa indagine sul territorio rappresenta un contributo all'attuale ricerca storica tesa a porre in luce il ruolo della piccola impresa nel processo di industrializzazione del Paese.
Corredata di numerosi grafici esplicativi, questa tesi nei tre capitoli che la costituiscono, partendo da un modello teorico di sviluppo, si addentra ad analizzare ''sul campo'' una concreta unità produttiva attraverso le sue strategie e le interazioni con il territorio circostante.
Pertanto dopo aver delineato nel Cap. 1, le caratteristiche economico-sociali e politiche peculiari di quel macrocosmo denominato Terza Italia (e, nello specifico, Modello Veneto), e dopo aver ricostruito nel Cap. 2 la storia del settore calzaturiero in Italia, col Cap. 3 si prende in esame il microcosmo di un'unità produttiva nel corso di trent'anni di attività.

Il peculiare metodo di indagine adoperato, l'utilizzo di uno strumento nuovo di ricerca qual è l'analisi dei libri matricola, hanno motivato l'importante riconoscimento ricevuto presso il MICAM Modacalzatura di Bologna, e la pongono in linea con le più recenti indagini storiografiche.

Nel Cap. 1 si è evidenziato come nel corso degli anni '70 iniziò a delinearsi l'esistenza della cosiddetta terza Italia, costituita dalle regioni del Centro Nord-est.
Fino ad allora queste regioni apparivano un'Italia terza, cioè periferica e destinata al decadimento perché non rispondente ai rigidi schemi economici basati sulla grande impresa. Invece il successo conseguito da parte di un ''capitalismo straccione'' in Toscana e di un ''Veneto miracolato'' ha portato alla scoperta di una Terza Italia ed a livello regionale, di un modello veneto di sviluppo.
Si è perciò interrotta la tradizionale dicotomia tra Nord e Sud del Paese, tra sviluppo e sottosviluppo, facendo emergere una realtà territoriale con propri caratteri economici e sociali, che sono:
1) Da un lato un'economia basata su la presenza di numerose piccole imprese; una lavorazione in settori tradizionali (alimentare, tessile, calzaturiero e legno); il decentramento sul territorio, tanto da poter parlare di campagna industrializzata;
2) Dall'altro una struttura sociale in cui la mezzadria ha favorito lo sviluppo di un know-how diffuso e la presenza di manodopera a basso costo che compensa retribuzioni più basse all'interno della famiglia appoderata. Tutto questo ha permesso il mantenimento della realtà agricola preesistente.
3) Infine la presenza, in queste regioni, di una sub-cultura politica fortemente polarizzata (rossa o bianca), ha attenuato gli attriti sociali offrendo sia all'impresa che all'operaio una comune identità culturale, oltre a servizi con connotazione ideologica quali banche confessionali o cooperative di consumo.
In questo quadro di sviluppo della piccola impresa nel rispetto delle realtà agricole, si è consolidata una lavorazione tradizionale, qual è quella calzaturiera.

Nel Cap. 2 ricostruendo la storia del calzaturiero italiano a partire dai primi insediamenti di fine '800 e riorganizzando i dati in tabelle e grafici, sono emersi alcuni processi di lungo periodo:
1) il ruolo che l'Italia ha acquisito nella divisione internazionale del lavoro, in quanto Paese late-comer nel processo di industrializzazione verso cui si è spostata una lavorazione ''matura'';
2) la progressiva diminuzione della dimensione media delle imprese calzaturiere italiane sia per il proliferare di imprese per processi imitativi, sia per il processo di disintegrazione verticale delle imprese con l'espulsione di alcune fasi di lavorazione.
3) Ma soprattutto un processo di periferizzazione della produzione che si è spostata dalle regioni più industrializzate (Lombardia e Piemonte) verso regioni della Terza Italia (Marche, Toscana, Veneto). In queste ultime regioni si sono costituiti i principali distretti calzaturieri.

Infine nel Cap. 3 viene svolta un'indagine sul territorio veronese attraverso l'analisi dei libri matricola di un importante calzaturificio locale.
L'utilizzo dei libri matricola come fonte per studi storici sull'industria è una strada praticata solo di recente e che ha messo in evidenza la precarietà del lavoro in fabbrica nel momento di passaggio da una società agricola ad una industriale.
L'analisi ha infatti evidenziato un'occasionalità da parte della manodopera nell'uso della fabbrica ad integrazione del reddito agricolo. Si nota perciò un'alta mobilità del personale ed una costante difficoltà da parte dell'impresa nel reperire la manodopera necessaria negli anni '50 e '60.
La corrispondenza riscontrata tra la stagionalità agricola e la stagionalità della lavorazione indica un adattamento del ciclo produttivo, che avviene prevalentemente nei mesi invernali, rinunciando al campionario invernale e concentrando la produzione su un sandalo da donna.

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I INTRODUZIONE A vent'anni dalla sua prima teorizzazione, l'esistenza di una "terza Italia" e di uno sviluppo periferico, che nulla ha da invidiare al polo industriale del Nord- Ovest e che al suo apparire aveva costituito una sorpresa clamorosa in ambito di studi economici e sociologici, sembra un concetto ormai acquisito ed accettato. Nata per indicare un'area che non godeva di rapporti privilegiati con il governo centrale come la grande industria e che non poteva usufruire dei meccanismi compensatori concessi invece al Sud del Paese, "l'Italia terza, cioè esclusa, emarginata e periferica, sembrava destinata ad un decadimento ineluttabile" ( 1 ). In realtà, negli anni '70, lo sviluppo delle cosiddette aree terze, ossia le regioni del Centro e Nord-Est del Paese, basato su una economia di imprese di piccole dimensioni e di lavorazioni tradizionali che non richiedevano grossi capitali ma soprattutto un notevole apporto di manodopera, dimostrava come il sistema di piccole imprese presentasse una maggiore tenuta ed elasticità nell'adattarsi alla congiuntura sfavorevole. Proprio in un'altra congiuntura negativa, quella attuale, il modello delle piccole imprese italiane ha ricevuto una consacrazione a livello internazionale ad opera del presidente degli Stati Uniti, nel recente "Job Summit" dei Sette Grandi svolto a Detroit. In questa sede, Clinton ha affermato che "il Senato degli Stati Uniti sta discutendo un progetto di legge che ha l'obiettivo di aiutare gli imprenditori a fare ricerca e sviluppo per creare centri manifatturieri in cui le imprese possano lavorare assieme, come ad esempio le imprese più piccole stanno facendo da molto tempo in Italia" ( 2 ). Negli anni '70, invece, le discrepanze fra le aspettative negative, legate a rigidi schemi economici, e gli impensati sviluppi della realtà, produssero al loro apparire non pochi imbarazzi. E se per la Toscana si parlava di "castello di carte" o di "capitalismo straccione", un dibattito parimenti acceso si svolgeva nel Veneto tra i sostenitori del modello veneto di sviluppo ed i suoi detrattori. I primi sottolineavano l'armonioso sviluppo della regione, diverso dallo stravolgimento sociale avvenuto nel triangolo industriale, mentre i secondi mettevano in luce il dualismo dell'economia veneta costituita da un'area centrale industrializzata che attraversava la regione inframmezzando due zone mantenute volutamente arretrate come bacini di manodopera a basso costo. Il dato di fatto però era che l'economia veneta, costituita da tante piccole imprese sparse sul territorio, si presentava, in questi anni, in continua ascesa. Un "Veneto miracolato" quindi, se non si tiene conto delle radici storiche del modo tipico dell'industrializzazione della regione. Infatti il carattere decentrato degli insediamenti industriali nel Veneto, a differenza di quanto affermato dai sostenitori dell'arretratezza, in anni di recessione è diventato un fattore di stabilità economica. Il decentramento ha permesso di non rompere i legami con la campagna, avvantaggiando il sistema dell'uso della manodopera agricola. 1 ) G.Becattini-G.Bianchi, Chi ha paura della regionalità, in "Il ponte", anno XL, 1984, n.1, p.100. 2 ) R.Cotroneo, Sette in cerca di occupazione, in "Corriere della Sera", 15/03/1994.

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