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Psycho e la messa in scena della morte

Psycho rappresenta una pietra miliare all’interno della carriera cinematografica del regista britannico Alfred Hitchcock. Il suo 46° film è talmente eccezionale da collocarsi, sia per l’impianto visivo sia per quello narrativo, lungo il confine tra il cinema classico e il cinema moderno. Dopotutto, tale film uscì nelle sale esattamente nel 1960, anno decisivo per il rinnovamento delle poetiche cinematografiche e per l’affermazione, a livello europeo, delle varie nouvelle vagues.
Definito da Truffaut un film “universale”, Psycho costituisce un’autentica anomalia nell’ampia e variegata filmografia hitchcockiana, essendo uno shocker film fuori dai soliti schemi. Il contatto diretto con il testo filmico ha rilevato quanto quest’ultimo sia profondamente complesso e codificato. Invero, il suo elevato grado di significazione ha richiesto uno sguardo attento per captare i numerosi messaggi e codici, presenti all’interno del lungometraggio. Fra questi ne predomina essenzialmente uno: la morte. Infatti, l’eccezionalità di quest’opera risiede nel fatto che lo spettacolo della morte è assolutamente anticonvenzionale, filmato in una maniera stilistica decisamente innovativa. E proprio di ciò si è discusso nel I capitolo di quest’analisi, dove si è lasciato ampio spazio sia al making of dell’inquietante bathroom scene, sia a quello relativo all’omicidio del detective privato Milton Arbogast.
A livello visivo, il primo indizio utile a traghettare lo spettatore lungo il tema sotteso al film è l’hobby del personaggio maschile: difatti, la sua passione di impagliare gli uccelli appare intrinsecamente collegata al suo bisogno di far sembrare vivo ciò che in realtà è morto. E nella sua collezione di volatili imbalsamati, troverà un posto d’onore proprio la stessa Marion; colei che dopotutto è il significante implicito della Madre. Ciò lo si può intuire già a partire dalla sequenza in cui Marion e Norman discutono nel salotto dell’ufficio; sequenza illustrata nel II capitolo di questa trattazione.
Proseguendo con la visione del film, si comprende immediatamente come l’omicidio della protagonista costituisca il nucleo formale e cinematico dell’opera audiovisiva. Infatti, il III capitolo verte proprio sulla complessa sequenza di montaggio relativa all’assassinio di Marion; una volta conclusa, termina anche la storia personale della donna e delle sue nevrosi: da questo momento, sì da inizio all’enigma e alla fase investigativa del plot. Infatti, oltre ad assistere all’omicidio del detective Milton Arbogast, verranno forniti allo spettatore anche alcuni strumenti atti a portare alla luce un delitto tenuto troppo a lungo segreto e nascosto: quello compiuto sulla signora Bates dal suo schizofrenico figlio Norman.
In Psycho s’intravede il legame tra psicoanalisi e cinema, tema cardine dell’intera filmografia hitchcockiana. Infatti, in quest’opera l’azione in senso stretto diviene secondaria rispetto all’investigazione psicologica. Nondimeno, lo spettatore può osservare come nel film predominino, insieme ad uno stile figurativo prossimo al modo di esprimersi tipico dell’inconscio, alcuni dispositivi prevalenti nel rapporto tra spettatore e grande schermo: l’immaginario, l’identificazione, la struttura sessuata delle soggettive e il voyeurismo. Invero, all’interno dell’IV capitolo di questa esposizione, si è esplicitamente fatto riferimento alla tematica dello sguardo e alla scopofilia coatta del personaggio maschile. Oltre a ciò, si è altresì cercato di spiegare come la perversione di Norman trovi credito anche nel voyeurismo dello spettatore, che nel buio della sala cinematografica s’immedesima con i personaggi del grande schermo.
Tali meccanismi, perciò, sono tutti veicoli preminenti per la costruzione sia di una storia commovente e misteriosa, sia per la realizzazione di momenti di orrore puro.
Infine, uno dei vanti del cineasta inglese e dello sceneggiatore Joseph Stefano è quello di essere stati abili nel tratteggiare l’emblematica frattura freudiana del soggetto psicotico, incarnata dal protagonista. Ed è proprio a causa della sua personalità dissociata e del suo complesso edipico irrisolto, che Norman è stato in grado di feticizzare fino alla morte il corpo inanimato della sua tirannica madre. Se ne deduce, quindi, che tale rappresentazione di un cadavere risulta ancor più singolare ed originale, perché mai in un film si era assistito ad una figura umana impagliata a guisa d’uccello. Inoltre, si noti come nel V capitolo di tale dissertazione, il valido supporto della psicoanalisi è stato impiegato altresì nei confronti della nevrotica Marion Crane che, seppur in misura minore rispetto al protagonista maschile, è tuttavia in grado di provare diverse e contrastanti pulsioni.
Facendo leva su tali chiavi psicologiche e sulla deprimente atmosfera che sovrasta il film, Hitchcock è riuscito, perciò, a rendere il senso della morte come uno dei più astratti spettacoli cinematografici di sempre.

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Introduzione Psycho rappresenta una pietra miliare all’interno della carriera cinematografica del regista britannico Alfred Hitchcock. Il suo 46° film è talmente eccezionale da collocarsi, sia per l’impianto visivo sia per quello narrativo, lungo il confine tra il cinema classico e il cinema moderno. Dopotutto, tale film uscì nelle sale esattamente nel 1960, anno decisivo per il rinnovamento delle poetiche cinematografiche e per l’affermazione, a livello europeo, delle varie nouvelle vagues. Definito da Truffaut un film “universale”, Psycho costituisce un’autentica anomalia nell’ampia e variegata filmografia hitchcockiana, essendo uno shocker film fuori dai soliti schemi. Il contatto diretto con il testo filmico ha rilevato quanto quest’ultimo sia profondamente complesso e codificato. Invero, il suo elevato grado di significazione ha richiesto uno sguardo attento per captare i numerosi messaggi e codici, presenti all’interno del lungometraggio. Fra questi ne predomina essenzialmente uno: la morte. Infatti, l’eccezionalità di quest’opera risiede nel fatto che lo spettacolo della morte è assolutamente anticonvenzionale, filmato in una maniera stilistica decisamente innovativa. E proprio di ciò si è discusso nel I capitolo di quest’analisi, dove si è lasciato ampio spazio sia al making of dell’inquietante bathroom scene, sia a quello relativo all’omicidio del detective privato Milton Arbogast. A livello visivo, il primo indizio utile a traghettare lo spettatore lungo il tema sotteso al film è l’hobby del personaggio maschile: difatti, la sua passione di impagliare gli uccelli appare intrinsecamente collegata al suo bisogno di far sembrare vivo ciò che in realtà è morto. E nella sua collezione di volatili imbalsamati, troverà un posto d’onore proprio la stessa Marion; colei che dopotutto è il significante implicito della Madre. Ciò lo si può intuire già a partire dalla sequenza in cui Marion e Norman discutono nel salotto dell’ufficio; sequenza illustrata nel II capitolo di questa trattazione. Proseguendo con la visione del film, si comprende immediatamente come l’omicidio della protagonista costituisca il nucleo formale e cinematico dell’opera audiovisiva. Infatti, il III 1

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