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Mitologia, mito e mito dell'uomo in Karoly Kerenyi

Il presente elaborato propone una riflessione su alcune opere di Karoly Kerényi (1897-1973), storico delle religioni ungherese che amò autodefinirsi mitologo e, in particolare, su quelle opere che trattano più da vicino le tematiche legate al mito, alla mitologia e al loro rapporto con l’uomo.
La distinzione kerényiana tra mito e mitologia, il problema del loro rapporto reciproco, il passaggio dal mito genuino al mito tecnicizzato, l’individuazione del nesso che intercorre tra mito/mitologia e religione, festa, linguaggio, morte, dimensione umana e dimensione demonica, l’interrogativo sulla possibilità di una demitizzazione delle religioni, sono tutte tematiche che si incontrano nel corso della trattazione, partendo dalle riflessioni di Kerényi e dei suoi relativamente pochi esegeti.
Il pensiero di Kerényi viene presentato anche alla luce dei rapporti che egli ebbe con alcuni autori, contemporanei e non; tra i primi ricordiamo in particolare Th. Mann e F. Jesi, che con lo studioso ungherese intrattennero un fecondo rapporto epistolare, ma anche C. Pavese, che ebbe un posto di primo piano nella diffusione dell’opera di Kerényi in Italia.

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aCap. I “Il Signore di cui l’oracolo in Delfi non dice e non nasconde: significa”1. Si può paragonare il dire mitico al dire oracolare? Il dire mitico pare piuttosto collocato a metà strada tra il dire oracolare e quello scientifico, poiché presenta dei tratti comuni ad entrambi. Rispetto al dire oracolare, il mito presenta come tratto comune la sua connotazione come fatto semiotico: a prima vista si potrebbe condurre il “significa” al “dice” per il semplice motivo che “dire” implica comunque un significato che si vuole trasmettere e che è portato dal significante. D’altra parte si deve anche dire che, dal frammento di Eraclito, si potrebbe estrapolare una sottile differenza tra il linguaggio che “dice e nasconde” e il linguaggio che “significa”. Il linguaggio che “dice e nasconde” è il linguaggio comune alla maggior parte degli uomini, a prescindere dal fatto che partecipino più o meno del “logos”: è il linguaggio parlato quotidianamente, quello che parla per divisioni e che parla del vero e del falso. Il linguaggio dell’oracolo non è il linguaggio comune, ma un altro linguaggio, che non può essere compreso dalla maggior parte degli uomini, che sono rinchiusi nelle loro convinzioni, convinti che il giorno e la notte siano ineluttabilmente separati, che il vero e il falso siano in continua lotta tra loro. E’ il linguaggio che ha superato la dicotomia vero-falso, e che svolge la sola funzione di significare, significare che comunque potrà essere compreso solo da chi condivide quella stessa sfera concettuale. Siamo così giunti impercettibilmente dal significare dell’oracolo al significare del mito, il quale, anche alla luce dell’interpretazione Lévi- Straussiana di mito 1 Eraclito, Frammenti, Diels- Kranz, 93. 3

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