La verità psicoanalitica

2 Introduzione. L’utilizzo del termine “verità” per connotare il contenuto di una disciplina può dare l’impressione di essere anacronistico, di richiamare in causa una concezione dell’attività conoscitiva tale da assicurare conoscenze assolute e capaci di formare una base solida sulla quale edificare ulteriori “progressi”. In questo lavoro viene proposto di considerare il termine “verità” come una sorta di “apertura” dell’essere umano, una modalità di relazione con l’ambiente interno ed esterno attraverso la quale è possibile un atteggiamento teoretico e conoscitivo; qualcosa che precede la conoscenza stessa, e che la motiva. La “verità” viene quindi concepita come una “struttura” che attende, un “contenitore” da riempirsi con un “contenuto”, un’esigenza che viene soddisfatta solamente a seconda dei criteri del campo di indagine nel quale si opera. La “relatività” della verità, nel senso dell’impossibilità di trovare una “base” unica e assoluta, non esclude la possibilità di accedere a delle conoscenze che contengano “parti” o “qualità” delle realtà alle quali ci avviciniamo. Collocandola nell’ambito pre-teoretico dell’agire umano nel mondo, e non nella sfera delle astrazioni concettuali, la “verità” si sottrae alla possibilità di una definizione valida per ogni ambito di conoscenza, e si configura come una qualità da attribuire agli enunciati relativi ai vari campi di indagine. Seguendo il suggerimento husserliano, in questa sede, viene proposto di considerare la “verità” come una idea-guida, una tendenza dell’uomo: un’idea che, «pur sotto […] forma presuntiva, e in una universalità indeterminata e