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L'estetica simbolica in Susan K. Langer

La tesi si pone l'obiettivo di sviscerare il pensiero di Susan K. Langer, filosofa dell'arte, partendo attraverso un'analisi delle tre tematiche rintracciabili nel suo percorso: la dimensione simbolica, l'arte e la filosofia della musica. Il lavoro di tesi si pone al crocicchio tra Kant/Cassirer, la fenomenologia e la filosofia della musica, alla ricerca del non detto di una filosofa che, nella migliore tradizione americana, ha saputo mediare i diversi contenuti, additando un interessante orizzonte ermeneutico per l'arte (intesa come una delle forme simboliche in grado di esprimere ciò che la parola non può dire), ancora in parte da esplorare.

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V INTRODUZIONE Il percorso della presente indagine intende essere un affondo nel pensiero di Langer. Tale ricerca è stata all’inizio motivata da un’intuizione: vale a dire, dalla percezione che dietro alle parole dei testi langeriani si celasse altro dal loro detto esplicito. Questo è, del resto, un topos dell’indagine filosofica, la quale si configura come lettura seconda, come “urgenza di porsi in ascolto di una parola che non ha voce (…), come ascolto del ‘silenzio’ ” 1 . Ciò, però, può avvenire qualora si riconosca nel testo la possibilità di un vuoto teorico, di uno scarto fra il detto esplicito e ciò che esso disegna come suo altro, il non-detto appunto. Cominciando a leggere i testi langeriani, invece, ciò che era inizialmente apparso era una pienezza di testo, una loro quasi disarmante linearità e solarità, si potrebbe dire. Dove era qui l’altro dal detto? Dove era il silenzio dietro la parola, quel silenzio di cui la parola stessa si nutre di continuo per vivere? Nonostante questa chiarezza che non lasciava adito al diverso dalla sua parola, la lettura faceva nascere il presentimento che ci fosse dell’altro, che il detto effettivamente disegnasse il luogo oscuro e ombroso, perduto in remoti anfratti e profondità, della sua stessa scaturigine: l’altra verità, la sua altra faccia. Il detto, infatti, pur solare, non era sufficiente, ed era la sua apparente povertà di contenuto che reclamava a gran voce un completamento in un altro. Il detto diceva altro da quello che pareva affermare, ma c’era bisogno di una prospettiva diversa per poter ascoltare, e ancor prima udire, quello che il testo non poteva dire che tacendo. D’altra parte, erano i testi stessi a sollevare le domande, dal momento che è il detto a disegnare il non-detto, e quindi ad additare l’oggetto stesso della ricerca. 1 P. D’ALESSANDRO, Esperienza di lettura e produzione di pensiero, Ed. LED, Milano 1994, p.170.

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