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Come la ginestra divenne fanciullo. L'influenza leopardiana e il suo superamento nell'opera di Nietzsche.

Quando si tratta di indagare un tema delicato e già profondamente sviscerato come il rapporto filosofico tra due pensatori illuminati quali sono Giacomo Leopardi e Friedrich Nietzsche, è sempre bene muoversi in punta di piedi. È raro trovarsi dinanzi a due figure, allacciate tra loro da un destino di tragica inattualità in vita e sconfinata attualità in morte, al contempo così simili e dissimili.
A partire dal rapporto con la filologia classica, e di conseguenza dalla concezione estremamente impopolare che entrambi ebbero della cultura e della filosofia greca – con particolare riguardo per la grave cesura costituita dalla 'innovazione' socratica rispetto alle antecedenti favole antiche – si andrà delineando il profilo di una relazione intima e complessa, che si dipana tra due generazioni, due nazioni, due lingue differenti, e giunge al ventunesimo secolo ancora vivace e ricca di nodi fecondi.

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4 INTRODUZIONE Quando si tratta di indagare un tema delicato e già profondamente sviscerato come il rapporto filosofico tra due pensatori illuminati quali sono Giacomo Leopardi e Friedrich Nietzsche, è sempre bene muoversi in punta di piedi. È raro trovarsi dinanzi a due figure, allacciate tra loro da un destino di tragica inattualità in vita e sconfinata attualità in morte, al contempo così simili e dissimili. A partire dal rapporto con la filologia classica, e di conseguenza dalla concezione estremamente impopolare che entrambi ebbero della cultura e della filosofia greca – con particolare riguardo per la grave cesura costituita dalla ‘innovazione’ socratica rispetto alle antecedenti favole antiche – si andrà delineando il profilo di una relazione intima e complessa, che si dipana tra due generazioni, due nazioni, due lingue differenti, e giunge al ventunesimo secolo ancora vivace e ricca di nodi fecondi. A metà del primo Ottocento, in un momento in cui l’Europa viveva di esaltazione e grandi aspettative verso il progresso, un giovane conte recanatese elaborava in solitudine cupe teorie del dolore e del piacere, dissertava sull’irreparabilità dell’infelicità umana e si scagliava contro la natura e contro la storia, sinonimo di civiltà e sintomo dunque di una razionalità vuota e controproducente; una razionalità che sospinge l’uomo verso quella che Heidegger definirebbe la più autentica inautenticità. Circa cinquant’anni più tardi, in una Germania che egli stesso denigra in quanto culla di falsi intellettuali e caduta miseramente tra le grinfie di un secolo antropocentrico e spiritualista, Nietzsche pubblica Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Inattuale è inoltre questa considerazione, perché cerco di intendere qui come danno, colpa e difetto dell’epoca qualcosa di cui l’epoca va a buon diritto fiera, la sua formazione storica; perché credo addirittura che noi tutti soffriamo di una febbre storica divorante e che dovremmo almeno riconoscere che ne soffriamo. 1 Nella seconda delle sue «Considerazioni inattuali», così come in molte altre opere, è forte l’influenza leopardiana subìta – o ancor meglio cercata – da Nietzsche, anche se non sempre riusciamo a individuarla in maniera esplicita ed evidente. Com’è noto, Nietzsche conosceva sia le Operette che i Canti del grande poeta italiano, ma non aveva alcuna notizia delle preziose pagine contenute nello Zibaldone: quando infatti la monumentale opera fu pubblicata per la prima volta, tra il 1898 e il 1900, la malattia aveva già serrato la mente del filosofo tedesco, che quindi non ebbe mai occasione di goderne. Questo non ha tuttavia impedito a Nietzsche di scoprire e stimare il pensiero filosofico di 1 F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Milano, 2012, p. 4.

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