Buoni per natura. Le radici evolutive della coscienza morale
Lo scopo di questo lavoro è di tracciare la storia evolutiva della morale a partire dal quadro darwiniano della selezione naturale, che per molto tempo è stato considerato incompatibile con un’idea di altruismo naturale; nonché di dimostrare come questa qualità, lungi dal’essere semplicemente una tattica vincente, si riveli una caratteristica biologica ereditata dai nostri progenitori. A partire dalla teoria di Darwin e dai problemi delineati dallo stesso nello spiegare la morale alla luce della lotta per la sopravvivenza tra gli individui, verrà analizzata la storia del gene egoista, l’idea di Dawkins che l’altruismo sia semplicemente una tattica vincente tra le altre, ognuna delle quali tenta di diventare la strategia evolutivamente stabile e, quindi, adottata da tutti. L’idea alla base di questa teoria è che il protagonista del processo di evoluzione non sono né la specie né l'individuo, ma il singolo gene (il 'replicatore') o al più un pool di geni. Il gene funziona in modo da massimizzare le sue probabilità di sopravvivenza tramite duplicazione. Unico vero 'scopo', in senso biologico, del gene è duplicarsi. Gli organismi complessi che compongono l'ambiente che ci circonda non sono altro che 'vettori' del gene, ovvero 'macchine da sopravvivenza', a volte molto complesse, frutto dell'evoluzione del gene che si garantisce la sopravvivenza e la replicazione con meccanismi sempre più raffinati. Non è quindi il DNA che serve all'individuo per riprodursi, ma è l'individuo ad essere uno strumento perché il gene si possa riprodurre e diffondere. Per sua natura il gene è 'egoista', nel senso che non compie azioni che aumentano le probabilità di replicazione di un altro gene a discapito delle proprie. Quello che interpretiamo come altruismo è al più 'egoismo illuminato'. I comportamenti a livello individuale e sociale delle specie animali sono guidati dal meccanismo del gene 'egoista'. Gli atteggiamenti altruistici che rendono così speciale la nostra specie, in realtà, non sono innati, bensì appresi. Dawkins ci mette addirittura in guardia, spingendoci ad insegnare l’altruismo, visto che l’egoismo del gene si proietta sul comportamento. Da questa connessione diretta tra gene e comportamento si passa ad una mediata, che frappone tra i due elementi la cognizione. Il passo avanti comincia con de Waal, che sottolinea come, con il procedere dell’evoluzione, prevalgono tra gli individui le spinte alla solidarietà, rispetto alle spinte di competizione. Viene pertanto evidenziato come il successo di una specie è legato molto più alle sue capacità di «amore» (collaborazione, amicizia, legami personali, solidarietà, protezione) che alle sue tendenze aggressive, come esemplificato dalle vicende delle api, delle formiche o delle termiti, che compiono atti di solidarietà fino al sacrificio. Forza e amore si integrano a vicenda: il capo del branco è sì il più forte, quello che con la prestanza fisica o con la capacità di fare alleanze, o con entrambe, ha acquistato il diritto di richiedere la sottomissione; ma è anche il più giusto, quello che sa proteggere il più debole, zittire il superbo, sedare la zuffa, fare pace. E il branco sa approvare o disapprovare, con manifestazioni collettive, su criteri «morali», le scelte del capo. La radice della solidarietà (l’imperativo etico kantiano) si ritrova, in maniera imperfetta o settorializzata, anche molto indietro nella scala evoluzionistica; e non è difficile identificarla, magari banalmente, nella potentissima e commovente pulsione alle cure parentali, su fino alla costruzione della famiglia, del branco, della tribù, della nazione. Lungi dall’antropomorfizzare l’animale, l’uomo va “normalizzato”, poiché è sì l’animale più perfetto, il prodotto evoluzionistico geneticamente e biologicamente più ricco, più complesso e più potente; ma è pur sempre un animale, con differenze di quantità e tipo, non di natura, con questi ultimi; e, come questi ultimi, è “naturalmente buono”. Lo scimpanzé e il bonobo sono “l’anello mancante” che l’etologia ha ritrovato, tra l’uomo e gli altri viventi, per ciò che concerne caratteristiche cognitive e morali, oltre che affettive. La moralità ha una salda base neurobiologica, come ogni altra cosa che facciamo o che siamo. Considerate un tempo come questioni puramente spirituali, l’onestà, la colpa e la riflessione su dilemmi etici sono riconducibili a specifiche aree cerebrali. Dunque non dovrebbe sorprenderci se troviamo un parallelo negli animali. Di qui si passa alla costruzione di una grammatica morale universale con Hauser e le sue ricerche sul senso morale. L'attuale senso comune ritiene che le decisioni morali dipendano da ciò che la società ritiene sia giusto o sbagliato.
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Informazioni tesi
Autore: | Simona Musco |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2007-08 |
Università: | Università degli Studi della Calabria |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | teorie della prassi cognitiva e comunicativa |
Relatore: | Francesco Ferretti |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 120 |
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