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Analisi degli Accordi di Dayton: i principi del diritto internazionale e il caso della Bosnia Erzegovina

Abstract

Lo svolgimento della tesi sull’analisi degli Accordi di Dayton, è dovuto partire dalla descrizione della situazione prebellica nella confederazione di sei repubbliche che, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, in virtù di una serie di atti legislativi, hanno avuto assicurate, e gradatamente accresciute, una pluralità di autonomie. I popoli che l’abitavano, da secoli erano mischiati, all’interno dei confini di ognuna delle repubbliche.
Nel 1992 Bosnia Erzegovina proclama la propria indipendenza, votata al referendum dal 64% del corpo elettorale, ma contestata da una parte della componente dei bosniaci ortodossi (serbi). Il nuovo stato nascente doveva liberarsi dai residui delle dipendenze da Belgrado e in primo luogo, dell’esercito di Milosevic che sostava ancora sul territorio bosniaco (circa 100.000 unità e metà degli impianti della produzione bellica). La presenza dell’esercito jugoslavo - JNA, come confermato dalle risoluzioni ONU, esercita un’aggressione sullo stato bosniaco; aggressione che in tutta la sua durata è stata trattata dalla comunità internazionale come una guerra civile. Date le modalità del conflitto, la dottrina parla chiaramente di un’aggressione, denominata nel diritto internazionale come aggressione indiretta.
Al tavolo delle trattative degli Accordi nel 1995 , però, vengono invitati i presidenti dei tre stati: Bosnia Erzegovina, Croazia e Serbia.
L’analisi si sofferma sulla soggettività giuridica dei firmatari degli accordi e sulla loro implicazione effettiva in guerra della Bosnia Erzegovina.
Vengono ripercorsi tutti i 12 allegati degli Accordi di Dayton ed analizzati ciascuno in riferimento alle norme del diritto internazionale.
Una semplice carta firmata non poteva assestare il marasma generale che coinvolgeva circa tre milioni e mezzo di persone e non poteva porre le basi per uno stato democratico. Le deficienze dell’architettura costituzionale di Dayton hanno posto un grave ostacolo alla creazione dello Stato di Bosnia Erzegovina.
I due organi principali, creati dagli Accordi di Dayton, dopo un’ analisi del loro operato, hanno svolto i loro compiti secondo i presupposti sanciti a Dayton, con qualche modifica addottata dal mutamento delle esigenze nazionali. La Bosnia rimane ciò che si era previsto, ma forse non voluto: un’unione di organizzazioni più o meno statali, in grado di funzionare solo grazie all’intervento dell’IFOR (dopo SFOR) e soprattutto a quello dell’Alto Rappresentante. Quello che sorprende di più, circa l’organo supremo di decisione in Bosnia, ossia l’Alto Rappresentante, è la mancanza di procedure standardizzate che dovevano essere seguite nel varare le decisioni. Molte leggi sono il risultato dell’elaborazione esterna allo Stato e generate all’interno delle organizzazioni internazionali. La struttura istituzionale imposta alla Bosnia a Dayton, ha rispecchiato in politica, come si è visto nella realtà, i precari equilibri raggiunti dagli eserciti. La struttura politico – istituzionale, che ha mantenuto le rappresentanze etniche e ha creato istituzioni secondo i criteri del “razzismo istituzionale” , e per di più, ha mantenuto in carica le stesse personalità che hanno fomentato la guerra, non poteva mantenersi se non sotto la tutela della comunità internazionale.

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CAPITOLO 1 Bosnia-Erzegovina , aprile 1992: guerra civile o aggressione? E’ opportuno anteporre al presente lavoro un breve capitolo introduttivo, senza il quale risulterebbe ostico comprendere appieno il complesso discorso che si andrà ad affrontare. In primis va definito il motivo per cui la Bosnia-Erzegovina, nel processo di dissoluzione della ex-Jugoslavia, non abbia subito il medesimo destino della Slovenia e della Croazia, per non parlare dell’indipendenza ottenuta del tutto incruentemente dalla Macedonia. Che cosa ha differenziato e che cosa differenzia tuttora questo paese dagli altri? I contenuti sono assai differenti, talvolta poco chiari, spesso ostici e – certamente – non affini a quanto i media hanno offerto, nel criterio di presentazione delle vicende qui trattate. Il territorio che oggi viene rintracciato nella “ex-Jugoslavia” era, in realtà, una confederazione di sei repubbliche che, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, in virtù di una serie di atti legislativi, hanno avuto assicurate, e gradatamente accresciute, una pluralità di autonomie. Il decentramento realizzatosi tra il 1968 ed il 1974 è stato talmente forte da arrivare persino a garantire la possibilità ad ogni repubblica di separarsi dalla confederazione. In secondo luogo, occorre precisare come la ricostruzione degli insediamenti, il variare dei credi religiosi e delle differenti etnie, nel corso dei secoli, risulti pressoché impensabile nel territorio esaminato. Il nostro campo di interesse verterà dunque, in modo esclusivo, nell’orbita di coloro che vengono definiti “Slavi del Sud”. Inoltre le componenti della ex Jugoslavia «non sono rimaste omogenee nel corso del tempo, ma è stato loro impresso un complesso disegno in seguito agli spostamenti di popolazioni da un luogo all’altro, dovuto a cause diverse[…].Queste migrazioni hanno creato un mosaico etnico e culturale.» 1 L’ultima costituzione promulgata dal regime di Tito, d’altra parte, si era preoccupata profondamente di salvaguardare i diritti e l’uguaglianza delle varie entità coesistenti all’interno del paese, individuando ed applicando artifizi amministrativi e legali che, all’epoca, erano sembrati ottimali. «Per un uomo autoritario, ma di grande intuito 1 Clissold, Storia della Jugoslavia, Einaudi, Torino, 1969, pag.15 3

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