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La comunità italiana di Istria e Dalmazia tra storia e uso pubblico del passato

L’idea di questa tesi nasce dal mio desiderio di approfondire e documentare un tema, l’esodo istriano o giuliano - dalmata, di cui ho sempre sentito parlare con molta passione. I miei nonni paterni erano, infatti, istriani e hanno trascorso in quella terra oltre metà della loro vita. Il trasferimento della loro famiglia ebbe luogo nel 1947, quando da Dignano d’Istria partirono per il Piemonte. Certamente la loro vicenda è solo una delle tante, simile a quella di molti, costretti ad abbandonare il proprio paese. L’allontanamento dalla terra d’origine è spesso vissuto come una lacerazione profonda e intollerabile, anche se indotto da un’impellente necessità di sopravvivenza, che costringe a rischi e disagi inenarrabili, mascherati, e spesso sfruttati, con la speranza di un futuro possibile e migliore (ancora oggi siamo quotidianamente testimoni di simili aberranti situazioni). La "nostalgia", il “dolore del ritorno”, è, per altro, da sempre uno dei sentimenti più struggenti dell’umanità. Ce lo ricorda la letteratura, rifugio di tanti celebri esuli, a partire dall’eroe per eccellenza della lontananza, Odisseo, che “il giorno, seduto sopra le rocce e la riva, / con lacrime, gemiti e pene il cuore straziandosi, / al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime /… Solo la patria piangeva, / trascinandosi lungo la riva del mare urlante”.[...] Tanti altri se ne potrebbero ricordare, di tempi e luoghi molto diversi: da Alceo ad Ovidio, da James Joyce a Gabriel Garcìa Màrquez a Milan Kundera. Gli scrittori meglio di altri sono stati in grado di dare voce alla propria condizione, ma, come loro, milioni di individui hanno vissuto il dramma dell’allontanamento dalla patria, in particolare in conseguenza di sanguinosi conflitti. Ogni guerra, infatti, ha provocato e provoca trasferimenti più o meno forzati di individui, anche là dove non sia sancito dalla diplomazia uno spostamento dei confini. Il XX secolo è ricco di esempi in tal senso: deportati, fuggiaschi, profughi, rifugiati, che in alcuni casi hanno messo fine ad insediamenti secolari. Si calcola che la sola risistemazione dei confini avvenuta alla fine della seconda guerra mondiale abbia portato al trasferimento forzato di oltre quindici milioni di persone. In certi casi perfino i trattati di pace, per assurdo, non sono stati per la popolazione civile la fine dell’incubo, bensì il suo inizio. In questa cornice trova posto la vicenda dell’esodo giuliano-dalmata. La cesura fu netta, in quanto esularono contadini, operai, artigiani, piccoli commercianti e amministratori pubblici, che ricoprivano le cariche indispensabili al funzionamento della società. Peculiare fu il modo in cui l’episodio venne raccontato (o non raccontato) negli anni successivi. A lungo in tanti hanno taciuto, per ignoranza, per disinteresse e forse anche per paura di passare per nazionalisti. Al contrario, chi s’è preso la briga di parlarne lo ha fatto, spesso, per riattizzare l’odio, per poter sbattere in faccia all’avversario politico le “proprie” vittime. Così “rimozione” e “strumentalizzazione” sono corse a braccetto, contribuendo a incendiare gli animi e intorbidire le acque. La mia analisi prende inizio dai lavori della Commissione mista italo-slovena che analizzò i rapporti fra i due stati dal 1880 al 1916. La relazione della Commissione evidenzia una serie di punti fondamentali per capire le dinamiche che condussero all’esodo: i rapporti fra le diverse etnie prima dell’avvento del fascismo, le violenze nazionaliste da esso scaturite, le drammatiche conseguenze, per la Venezia Giulia, del vuoto di potere causato dal suo crollo, l’avvento di Tito e dei partigiani jugoslavi, le sommarie rappresaglie perpetrate. Esaminate le “ragioni di un esodo”, nel secondo capitolo mi soffermo su quanto avvenuto in seguito: un inserimento difficile nel complicato tessuto sociale dell’Italia post-bellica, un’accozzaglia di associazioni che per molti anni hanno conservato, in maniera quasi esclusiva, la memoria storica dell’esodo stesso. La stampa di queste associazioni è stata, ed è ancora oggi, il mezzo principale utilizzato per conservare e divulgare tale memoria. Fra i tanti periodici nati con questo intento, ho scelto di esaminare “L’Arena di Pola”, non con la pretesa di farne il simbolo della stampa giuliano - dalmata, ma per via dell’impossibilità di svolgere questo lavoro su tutti i periodici in questione. Per completare l’indagine ho, infine, ritenuto opportuno gettare uno sguardo sulle vicende della minoranza che, per svariate ragioni, non scelse l’esodo, preferendo rimanere in Jugoslavia. Comprendere i rapporti fra le due anime della vicenda, gli esuli e i rimasti, è fondamentale per capire come la conflittualità che li ha caratterizzati per decenni, possa essere assurta a simbolo dei contrasti che ancora oggi incendiano gli animi, allorché si parla di esodo e soprattutto di foibe.

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4 INTRODUZIONE L’idea di questa tesi nasce dal mio desiderio di approfondire e documentare un tema, l’esodo istriano o giuliano - dalmata, di cui ho sempre sentito parlare con molta passione. I miei nonni paterni erano, infatti, istriani e hanno trascorso in quella terra oltre metà della loro vita. Il trasferimento della loro famiglia ebbe luogo nel 1947, quando da Dignano d’Istria partirono per il Piemonte. Da Torino, dopo un periodo di soggiorno presso le Casermette, breve quanto tormentato dall’eccezionale freddo di quell’anno e dalla promiscuità, si spostarono ad Andezeno, “ospitati” nella villa di una locale contessa (vennero sistemati in una stalla). Quindi, l’approdo definitivo a Chieri, prima con una sistemazione di fortuna, poi finalmente in una casa propria, che, lavorando duramente, riuscirono a riacquistare. Certamente la loro vicenda è solo una delle tante, simile a quella di molti, costretti ad abbandonare il proprio paese. Come affermava il filosofo latino Seneca, nel tentativo di consolare la madre per l’esilio del figlio 1 , esso non è che una “commutatio loci” 2 , un semplice “cambiamento di luogo”, che la storia di singoli individui e di intere popolazioni migranti metteva ogni giorno sotto gli occhi di tutti, foriero spesso di miglioramenti e trasformazioni positive 3 , mentre ciò che veramente valeva per l’uomo, i suoi veri beni, la sua interiorità, e la possibilità di alzare gli occhi al cielo restavano immutati e accessibili in ogni luogo della terra. Tuttavia, lo stesso Seneca contraddisse a queste teorie 4 tentando in ogni modo di farsi richiamare dall’imperatore a Roma dalla Corsica, che definì un buco di barbari 5 , e, pur di raggiungere questo scopo, scese ad umilianti compromessi, quali l’adulazione più smaccata del principe, altrove 6 irriso spietatamente, e dei suoi liberti, possibili intercessori 7 . Dunque, l’allontanamento dalla terra d’origine è spesso vissuto come una lacerazione profonda e intollerabile, anche se indotto da un’impellente necessità di sopravvivenza, che costringe a rischi e disagi inenarrabili, mascherati, e spesso sfruttati, con la speranza di un 1 Seneca, Consolatio ad Helviam matrem, in Le consolazioni (a cura di A.Traina), BUR, Milano, 1987, p.130 2 Ibid., p.140 3 Ibid., p.146. L’autore ricorda, alludendo al mito di Enea in fuga da Troia distrutta, come la nascita stessa dell’impero romano fosse dovuta ad un “profugo che aveva perso la patria e si traeva dietro un pugno di superstiti alla ricerca di una terra lontana”. 4 Come ci dimostra la Consolatio ad Polybium, in op. cit., p.194 5 Ibid., p.242 6 Vedi la feroce satira contenuta nell’Apocolocynthosis, composta dopo la morte di Claudio. 7 Come appunto il dedicatario della suddetta consolatio, Polibio, apparentemente consolato della morte di un fratello, ma, in realtà vergognosamente e subdolamente supplicato di intervenire per il rientro dell’autore.

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