L'intervento in ambito penitenziario: una sfida per il terapeuta sistemico relazionale
La domanda che da tempo gli operatori in campo psicosociale e in particolare in ambito penitenziario si fanno è “ma si può fare psicoterapia in carcere”? La risposta è per lo più “no”. Si può fare diagnosi, osservazione, supporto. Ma psicoterapia no. Manca il setting, manca la domanda, manca il compenso. Manca…tutto. Tranne la sofferenza.
La domanda che vorrei affrontare in queste pagine è “si può fare psicoterapia sistemico-relazionale in carcere”? Alla luce di 4 lunghi anni passati nel carcere di Torino “Lorusso e Cotugno” non sono riuscita a dare una risposta né in un senso né nell’altro. Quando dovevo scegliere dove svolgere il tirocinio per la scuola di specializzazione, un ambito per me molto lontana dal mio contesto lavorativo abituale, ho visitato diverse strutture, fatto molte interviste ai potenziali referenti, e tra tutte la scelta è ricaduta sul carcere. Nonostante già al primo contatto mi fosse stato detto con trasparenza che fare psicoterapia in carcere è utopico, o forse proprio per questo, mi sono lasciata trascinare in questa ardua avventura. In effetti il contesto potrebbe sembrare incompatibile con metodi e tecniche propri della psicoterapia sistemica. Se abbiamo in mente la stanza di terapia “inventata” dalla Selvini siamo molto lontani, ma se abbiamo in mente i presupposti epistemologici della psicoterapia sistemico-relazionale, siamo molto più vicini di quello che potremmo pensare. I sintomi e il disagio del singolo individuo sono il risultato di un intersecarsi complesso tra esperienza soggettiva, qualità delle relazioni interpersonali più significative e capacità cognitive di autovalutazione della propria situazione. I sintomi di una persona, oltre ad esprimere in maniera metaforica il conflitto psichico soggettivo, acquisiscono una funzione precisa all'interno del sistema relazionale in cui emergono. In ambito penitenziario il sintomo può essere considerato il comportamento deviante? Con molta probabilità molti dei detenuti che ho incontrato erano pronti per “toccare il fondo”, come suggerisce Bateson. E da lì la possibilità di introdurre un cambiamento. A questo si aggiunge la capacità di uscire dai propri schemi, l’usare linguaggi diversi, l’umorismo, la capacità di ascolto, di indagare le relazioni e le reti familiari, l’aiutare a vedere con nuovi occhiali la realtà, il riconoscimento, il dare un valore a quanto le persone sono in grado di fare, separando l’atto criminoso dalla persona. Così uno spacciatore potrà diventare un ottimo venditore. Un rapinatore un barista. Un omicida un rugbista.
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Informazioni tesi
Autore: | Barbara Martini |
Tipo: | Tesi di Specializzazione/Perfezionamento |
Specializzazione in | Psicoterapia sistemico relazionale |
Anno: | 2014 |
Docente/Relatore: | Pasquale Busso |
Istituito da: | Centro Studi Eteropoiesi |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 44 |
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