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L'illusione di realtà: analisi dei processi percettivi nel montaggio cinematografico

Il cinema è l’arte di disporre le immagini in successione nel tempo, ma non solo: grazie al montaggio sia lo spazio, sia il tempo si frammentano e si moltiplicano in una molteplicità di inquadrature assai differenti tra loro, senza che per questo venga meno l’illusione di realtà provata dallo spettatore.
Tale illusione si viene a realizzare grazie a precise leggi del campo visivo che determinano nell’osservatore una visione omogenea e coerente: da un originario movimento di ombre e luci, insomma, egli giunge a percepire una nuova realtà.
Ciò è possibile in quanto, da un punto di vista psicologico, c’è realtà e realtà. Bisogna infatti distinguere la credenza alla realtà di un oggetto o di un evento dal carattere intuitivo di realtà che lo stesso può avere: se la prima dipende da un processo d’apprendimento attraverso l’esperienza, il secondo ne è, invece, indipendente, poiché trova il suo fondamento in un’impressione primaria.
I due aspetti della realtà psicologica sono spesso in accordo tra loro ma tra i casi in cui la realtà apparente di un evento e ciò che si sa di esso sono in conflitto, rientra proprio il cinema ed in particolare il montaggio: lo spettatore, infatti, tende a percepire il flusso del film come continuo, nonostante egli sappia benissimo che tale unità è, sia da un punto di vista temporale che spaziale, frammentata da un’infinità di “tagli”.
Questo tipo di conflitto è risolto dall’introduzione del concetto d’illusione che consacra il divorzio tra ciò che noi sappiamo o crediamo essere la realtà “in sé” e cosa, invece, “appare” reale.
L’arte del montaggio, allora, può porsi come duplicazione del mondo quotidiano solamente in maniera fittizia, ovvero, nella sua indipendenza funzionale dalla realtà data dalla segregazione degli spazi, la scissione tra il mondo visivo proiettato e il mondo propriocettivo reale.
Solo così il montaggio può acquistare un significato o, in altre parole, può suscitare illusione di realtà nello spettatore. Quest’ultimo, infatti, nella posizione privilegiata di partecipatore simultaneo sia del sistema visivo, sia di quello propriocettivo, ha la possibilità di mediare il conflitto tra i due mondi attraverso le leggi esclusive della percezione che, identiche in entrambi, ne attivano sia i meccanismi psicologici di riconoscimento delle immagini schermiche, sia i processi mentali d’attualizzazione della situazione cinematografica.
In altre parole, sono le forze strutturali agenti nel campo visivo dello spettatore ad essere responsabili della tendenza del montaggio ad apparire come immagine e copia della realtà. È in questo modo, insomma, che il carattere immediato d’artificiosità del montaggio entra a far parte dell’esperienza quotidiana e viene percepito come qualcosa di reale. Le leggi percettive che si realizzano nella vita d’ogni giorno, infatti, sono le stesse che si rivelano attive durante la visione di un film. È in questo senso, allora, che si può definire il mondo cinematografico come subordinato fenomenicamente a quello reale: i suoi oggetti mirano ad assomigliare, a regredire, verso quelli originari corrispondenti.
Si comprende, infine, perché nonostante la numerosa frequenza di distorsioni e “stacchi” fisicamente presenti durante la proiezione, essi siano “invisibili” allo spettatore: la tendenza delle diverse inquadrature ad unificarsi in base alle leggi suddette è talmente efficace da far passare inavvertiti i bruschi salti spaziali e temporali effettivamente presenti.

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INTRODUZIONE «Ogni [...] film è fatto di molti pezzi diversi di pellicola composti in un mosaico di immagini». 1 Con quest’affermazione Walter Murch 2 nel suo testo In un batter d’occhi, introduce il problema cruciale dell’arte del montaggio: come può una semplice successione d’immagini statiche in movimento produrre un’impressione di realtà così viva nello spettatore? Infatti, «mettere insieme questi pezzi sembra funzionare davvero, anche se rappresenta uno spostamento di campo visivo totale e istantaneo, che qualche volta implica un salto in avanti o indietro nel tempo come nello spazio» 3 . Alle origini del problema risiede quel momento particolare del montaggio cinematografico definito “stacco”, ovvero, il taglio di giuntura tra due inquadrature, poiché è proprio in quell’istante, affinché sia possibile la ricostruzione della verosimiglianza spazio-temporale della scena, che paradossalmente, si deve verificare una «discontinuità totale e istantanea del campo di visione» 4 . Però lo spettatore non avverte queste continue dislocazioni della macchina da presa, ma vive una singola azione che si sviluppa in continuità nel tempo e nello spazio. Ed è per questo che, nonostante egli abbia una viva consapevolezza dell’esistenza dell’operazione di montaggio nel film, si sorprende ancora di fronte alla violenza di quello che succede veramente. «[Ed è] ancora più sorprendente se 1 Walter Murch, In un batter d’occhi. Una prospettiva sul montaggio cinematografico nell’era digitale, Lindau, Torino, 2001, p. 19. 2 Walter Murch ha lavorato come montatore cinematografico con molti registi, tra cui Francis Ford Coppola (Oscar per il suono di Apocalypse Now) e Antony Minghella (doppio Oscar per il montaggio di immagine e suono in Il paziente inglese). Ha rimontato L’infernale Quinlan di Orson Welles, secondo le intenzioni del regista, e ha anche diretto Nel fantastico mondo di Oz, per la Disney. 3 Walter Murch, In un batter d’occhi. Una prospettiva sul montaggio cinematografico nell’era digitale, Lindau, Torino, 2001, p. 19. 4 Idem, p. 57. Anche Diego Cassani in Manuale del montaggio, Torino, UTET, 2000, afferma che lo scopo del montaggio «è la ricostruzione della continuità frantumata nel corso delle riprese, fatta rivivere in una continuità nuova e diversa» (Idem, p. 77). 5

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